venerdì 30 novembre 2007




Editoriale:

Sotto lo stimolante auspicio dei lettori, di quelli ormai “affezionati” come anche di quelli futuri, nasce questo quarto numero della rivista, che vede pressoché immutata la natura del suo obiettivo: informare, in tutte le possibili accezioni del termine, e nella ovvia limitazione di spazio concessa.
Ciò non senza qualche “vagabondaggio letterario”, che possa offrire, accanto all’articolo di attualità o a quello culturale, una (diversa, ma egualmente importante) occasione di riflessione, persino di “svago”, poi che una monolitica raccolta di contributi meramente “giornalistici” od orfana di divagazioni ed approfondimenti culturali, ebbene, non rientrava nei nostri intenti.
Per ciò anche in questo numero, lo spettro dei temi trattati sarà ampio e variegato: emblema non di dubbia coerenza, ma di pluralità di vedute.



N.S. e L.P.




Sommario:

Aj Ljublju PRC, di Leonardo Pegoraro




Studi umanistici “tecnologici”, di Nicola Serafini




Un imperialismo dei diritti umani, di Emiliano Alessandroni




Note sulla Birmania e sulla Cina, [corrispondenza fra Leonardo Pegoraro e Samuele Mascarin].




Cultura




Figura della donna e concezione estetica in Svevo e D’Annunzio, di Emiliano Alessandroni




Dante e «la cloaca del sangue e della puzza», di Nicola Serafini


Modigliani Amedeo, di Nicola Serafini


APPENDICE




Flussi di coscienza:





Sento, tutto ciò che vivo…, di Mattia Ambrogiani




Gli asini, Eschilo e i Marlene Kuntz, di René Aubrié




A Ja Ljublju PRC



di Leonardo Pegoraro



1.La deriva dei comunisti (ex?!) alla
ricerca della “terza via”.



Quante volte ci siamo sentiti ripetere fino alla nausea concetti come questi: la società senza classi, quella in cui tutti sono veramente uguali non è possibile, è pura utopia. Non può funzionare, fallirebbe come ha fallito l’URSS. Ergo: al capitalismo non possono essere opposti altri modelli, perché questi sfocerebbero inevitabilmente nel dispotismo e renderebbero l’uomo schiavo. Questa tesi dell’ideologia dominante, ampiamente diffusa e sostenuta, ha finito purtroppo per far breccia anche all’interno della stessa “sinistra”. E dalle falle così apertesi al suo interno essa ha potuto esercitare la sua opera di distruzione lenta e progressiva incontrando resistenze col tempo sempre meno forti, fino a ridurle all’osso. Dobbiamo infatti pensare alla “sinistra”, per dirla metaforicamente, come a una rete - già indebolita da istanze oggettive (crollo dell’URSS, “aiuti alimentari” statunitensi etc.) e soggettive (incapacità e/o opportunismo dei dirigenti etc.) – che non ha saputo resistere all’impeto dell’ideologia dominante. Quest’ultimo, forzando, ha così allargato le malie della nostra rete la quale, in ultima analisi, ha finito col “filtrare” sempre meno, facendo passare – ormai è il caso di dirlo - di tutto. Insomma la “sinistra”, o meglio la sua parte più numericamente consistente (non tutto è perduto…), ridottasi ad un pensiero volto a liquidare l’esperienza pratica e teorica comunista, sentendosela raccontare, si ritroverebbe a condividere i contenuti di questa vecchia barzelletta: “Sai qual è la differenza tra capitalismo e socialismo reale? Il primo è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e il secondo è il contrario!”. Ciò è a dire una “sinistra” anticapitalista ma allo stesso tempo anche anticomunista - con riferimento ai tentativi di transizione al socialismo che si sono realizzati e quelli che, cosa che si tace troppo spesso (e le rare volte in cui se ne parla è solo per gettarci sopra fango: vedi l‘attacco che Liberazione, accodandosi alla propaganda imperialista, ha sferrato contro Cuba e il Venezuela), continuano ad esistere. Una “sinistra” alla ricerca di una “terza via” che inevitabilmente, come ci dimostrano i fatti, spinge, nella maggior parte dei casi ad assumere posizioni più o meno socialdemocratiche ed opportunistiche. È sintomatica, a tal proposito, la fine che hanno fatto le “terze vie” delle socialdemocrazie europee; quelle che muovevano cioè, sintetizzando grossolanamente, dall’idea, per usare un’espressione di J. Dewey, di un “liberalismo rinascente” - basato sull’utopica conciliazione di capitalismo e welfare, individualismo e riconoscimento della pluralità degli interessi. Lo stesso Dewey, noto esponente del movimento progressista americano dei primi decenni del Novecento e della sua ala più riformatrice, che poi, in polemica con R. Burne, rappresentante dello stesso movimento ma pacifista, appoggiava a spada tratta lo sforzo bellico dell’amministrazione Wilson nella vana speranza di fondare un ordine mondiale democratico. Secondo quel leitmotiv tanto irrazionale quanto ripugnante - e oggi tornato più che mai in voga (vedi la cosiddetta dottrina Bush) - secondo cui la guerra si fa per la pace e la democrazia (sic!). (D’altro canto è sempre bene diffidare anche dei liberali più progressisti e dei socialdemocratici che si pongono alla loro coda, se non addirittura nello stesso partito, perché in questo come in altri casi a noi più familiari e recenti, quando è ora di passare dalle belle parole ai fatti sempre di liberali si tratta: essendo tali, quando sono in gioco gli interessi del modello capitalistico e delle sue classi dirigenti, non si fanno certo tanti scrupoli se a pagarne le spese sono le classi subalterne o interi popoli, riducendoli alla fame e/o massacrandoli terroristicamente).



2. Da Eschilo a Luciano e da Stalin e Ochetto
a Bertinotti e Giordano.



“[…] il detto di Hegel che nella storia ogni fatto si ripete due volte: correzione di Marx che la prima volta il fatto si verifica come tragedia, la seconda volta come farsa. Questo concetto era già stato adombrato nel Contributo alla critica della filosofia del diritto: ‘Gli dei greci, tragicamente feriti a morte una prima volta nel Prometeo incatenato di Eschilo, subirono una seconda morte, la morte comica, nei dialoghi di Luciano. […]” (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Vol. I, pag 333-334, Einaudi editore, 2007)
Senza alcun bisogno di forzare le cose, questo passo ben si presta a descrivere la fase che stanno vivendo, in generale, i comunisti del nostro paese e, in particolare, il PRC.
Iniziamo con un esempio riguardante il giudizio che il Partito della Rifondazione Comunista dà del Partito Comunista Cinese e del paese da questo governato. Di fronte ad un fenomeno di questa portata e da cui, come ha dichiarato Fidel Castro, può dipendere il futuro del socialismo nel mondo, è davvero sconcertante constatare quanto sia sommaria e, in ultima analisi, liquidatoria l’analisi che porta Bertinotti a dichiarare: “la Cina è un gigante capitalista” (su la Repubblica del 20 dicembre 2005); con l’inequivocabile intento, dopo la presa di distanza da tutti i tentativi di transizione al socialismo, di “scomunicare” anche il Partito Comunista Cinese. Vediamo ora di fare un parallelismo storico che mostri in pratica che cosa significhi quanto abbiamo letto, grazie a Gramsci, riguardo al succitato detto di Hegel, “corretto” poi da Marx.
Siamo nel 1948. Se l’errore di Stalin di condannare il Partito Comunista jugoslavo, “considerato colpevole di una politica di restaurazione del capitalismo” ha rappresentato una tragedia, la condanna espressa da Bertinotti (e chi con lui) nei confronti del PCC sembra essere la ripetizione di un analogo fatto storico. Ma, questa volta, come farsa. È stato infatti osservato che, se
“in quel momento ad emettere il bando di scomunica era un ‘campo socialista’ guidato da un paese protagonista non solo della rivoluzione d’Ottobre ma anche di un’eroica e vittoriosa resistenza contro la barbarie nazifascista. Oggi, invece, sono piccoli partiti e gruppetti minoritari e velleitari a voler emettere un bando di scomunica contro un partito di decine di milioni di militanti, protagonista di una grande rivoluzione nazionale e sociale e artefice di un processo di fuoriuscita dal sottosviluppo, che interessa oltre un quinto dell’umanità e che quindi è destinato a modificare radicalmente la geografia politica del pianeta e i rapporti di forza a livello internazionale. Non c’è dubbio, la tragedia si è trasformata in farsa.” (Domenico Losurdo, Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione cinese oggi, pag. 162-163, La Città del Sole, Napoli, 2005)
“Dalla tragedia alla farsa”: così scrive anche Leonardo Masella nell’editoriale de L’ernesto del Luglio/Agosto 2007, in cui, riferendosi alla volontà da parte dei dirigenti del Partito di scioglierlo in un soggetto unico vagamente di sinistra e organicamente alleato al PD, parla di un “PDS bonsai, attraverso una bolognina bonsai”. Già annunciata il 12 Novembre del 1989 (le date sono emblematiche) e anche allora attraversata da un ampio dibattito sulla “Cosa” (da quando Occhetto affermò, secondo lo stesso leitmotiv riciclato oggi dalla dirigenza del Partito, che “prima viene la cosa e poi il nome”), anche la tragedia vissuta con la svolta della Bolognina del 3 Febbraio del 1991 ora si ripete. Ma, per l’appunto, come farsa.



3. Il materialismo dialettico della conoscenza. Una pietra angolare del comunismo dimenticata.



Per contro, non dovremmo mai stancarci di ripetere che in Italia la sinistra si compone di due anime fra loro diverse: una socialista e l’altra comunista. Ma quando, invece di rivendicare l’identità comunista, Franco Giordano, al contrario, si spinge fino a dichiarare che “siamo pronti a metterci in gioco, ad aprire con soggetto unitario e simbolo nuovo" (su la Repubblica del 25 ottobre 2007) si mostra da sé la volontà dei dirigenti del Partito di scioglierlo entro un contenitore non più comunista e di mettere in questo modo definitivamente una pietra sopra l’esperienza teorica e pratica del comunismo. Diviene così il compatibilismo socialdemocratico il nuovo asse ideologico del Partito, dai contorni poco definiti e dunque suscettibile altresì di derive difficilmente controllabili anche da parte degli stessi promotori della svolta (Bertinotti in testa).
E dal momento che, come metteva in guardia anche Lenin muovendosi sulle orme di Marx ed Engels (quest’ultimi scrivono: “la borghesia si rappresenta il mondo in cui domina come il migliore dei mondi” - nel Paragrafo II del Capitolo III de il Manifesto del Partito Comunista) , la struttura del linguaggio borghese, abbellendo la realtà , riesce a far breccia tra le nostre fila, ecco che si dimenticano quelle che sono le pietre angolari del marxismo stesso. È su una di queste che porrò qui l’attenzione: il materialismo dialettico della conoscenza, ovvero teoria marxista della conoscenza che dir si voglia. Con questo concetto è da intendersi ciò che più semplicemente è sintetizzato dalla nota triade (di derivazione hegeliana) prassi-teoria-prassi - cui è poi intrecciato il concetto di autocritica. Cosa ciò significhi è presto detto:
“la prima fase nell’intero processo della conoscenza, è la fase del passaggio dalla materia, oggettiva, allo spirito, soggettivo, dall’essere al pensiero. In questa fase […] non è ancora possibile determinare se il pensiero (che include teorie, politica, piani e metodi) sia o no giusto. Segue la seconda fase del processo della conoscenza, la fase del passaggio dallo spirito alla materia, dal pensiero all’essere, in cui si applica alla pratica sociale la conoscenza acquisita durante la prima fase per vedere se le teorie, la politica, i piani e i metodi danno i risultati previsti. In generale è giusto ciò che riesce, sbagliato ciò che fallisce” (di Mao Tse-Tung, Da dove provengono le idee giuste?; Citazioni dalle opere del Presidente Mao Tse-Tung, pag. 219-220, Casa editrice in lingue estere, Pechino, 1968)
In che senso sostengo che i bertinottiani del Partito perdono completamente di vista questa importante lezione? Il fatto che meglio si presta ad evidenziare questa grave mancanza è l’ostinata e puerile decisione, più o meno esplicitamente e consciamente adottata, di proseguire imperterriti secondo la linea politica decisa (e imposta) all’ultimo Congresso, quello tenutosi a Venezia nel 2005. Una scelta, quella del governismo (giustificato, tra le altre cose, dalla vana quanto illusoria speranza di portare i movimenti “dentro” il parlamento), che si è rivelata e continua a rivelarsi decisamente fallimentare e controproducente. Oltre al fatto che si sono ingoiati continuamente rospi e ottenuti scarsi risultati (e quei pochi sono davvero deludenti), basti solo pensare, riguardo al rapporto con i nostri ceti sociali di riferimento, al calo del tesseramento su scala nazionale, alla consistente perdita del consenso elettorale verificatasi in occasione delle scorse elezioni amministrative, alla crescita del fenomeno dell’“antipolitica” (Beppe Grillo), ai fischi degli operai, all’leitmotiv del “siete tutti uguali” e alla correlata mancanza di fiducia (che è la condizione necessaria al sostegno) da parte delle classi subalterne ecc.; mancando così al compito di unire le classi lavoratrici e oppresse del paese. Un compito preliminare e imprescindibile per un’organizzazione politica di ispirazione comunista: come non c’è unità senza lotta, così non ci può essere lotta senza unità. E la partecipazione al governo, specie affrontata nel modo che sappiamo, ha ostacolato, come era ampiamente prevedibile, sia l’una che l’altra.
Ciò non ostante i promotori e i sostenitori di questa sciagurata scelta, ostinatamente decisi a portarla avanti senza “se” e senza “ma”, non ci pensano proprio a fare della sana autocritica; il che significherebbe prendere semplicemente atto, per dirla col Presidente Mao, che ciò che fallisce è sbagliato e quindi fare marcia indietro: mettere in discussione l‘intero percorso che va dal Congresso di Venezia ad oggi. È chiaro: siamo di fronte all’elusione della lezione di Marx sul processo di conoscenza.



4. La deriva securitaria e revisionistica. Il cammino di Nichi Vendola e il monumento estone.



Accenniamo ora alla questione relativa ai rumeni nel nostro paese. Come hanno reagito i bertinottiani riguardo al fascistizzante e anticostituzionale pacchetto sicurezza del governo diretto contro i rumeni che, lungi dall’osservanza di un principio basilare del diritto, punisce non sulla base delle responsabilità individuali ma sulla base di quelle etnico-collettive? È piuttosto nota la posizione esecrabile che ha assunto (il compagno?) Caprili. Ma non finisce qui: su il Riformista del 3/11/2007 possiamo leggere che
"Fausto Bertinotti in persona, il presidente della Camera, si è assunto la responsabilità di non ostacolare il decreto emergenziale sulle espulsioni, intervenendo dietro le quinte per convincere Paolo Ferrero a non mettersi di traverso in Consiglio dei ministri: convincendolo dell'inopportunità di uno smarcamento del Prc dall'esecutivo in un contesto così segnato emotivamente e chiedendo ai capigruppo di Camera e Senato di non contestare il blitz di Walter Veltroni."
Così ha poi sentenziato Nichi Vendola, leader in pectore della Cosa Rossa:
"Voterei il pacchetto Amato? Cercherei di migliorarlo - dice il presidente della regione Puglia - ma alla fine voterei a favore. Intanto costruisco un cammino. Non rischierei di essere solo posizionato ideologicamente”.
E commenta, a ragione, l’autore dell’articolo (S. Cappellini): “una coincidenza la moral suasion bertinottiana e l'esternazione vendoliana? Difficile crederlo". Ma prima di tirare le somme osserviamo ora un altro fatto. Dopo la scelta del governo fascistizzante dell’Estonia di rimuovere un monumento dedicato ai caduti dell’esercito sovietico nella lotta contro la barbarie nazifascista, ecco che il 9 Maggio del 2007 la “Sinistra Europea” di Bertinotti (insieme a Synaspismos, ai gruppi dei paesi scandinavi e alla maggior parte dei deputati del PCF e della PDS tedesca) vota a favore di una mozione che solidarizza con il comportamento delle autorità dell’Estonia e che condanna la più che giustificata reazione indignata dei russi. Il tutto all’insegna dell’anticomunismo e del revisionismo. Per contro, a difendere la memoria storica di un paese che, non ostante le difficoltà oggettive in cui versava, ha contribuito, in termini di vite umane, più di ogni altro alla capitolazione del nazifascismo ci hanno pensato invece i comunisti greci (KKE), il Partito Comunista Portoghese, l’AKEL di Cipro, il Partito Comunista Ceco-Moravo, il PdCI, i comunisti spagnoli, due deputati della PDS tedesca e un deputato del PCF. Che dire di fronte a questi due eventi? Che ci sono dei cripto-fascisti tra i nostri compagni? No, non mi spingerei fino a questo punto. La spiegazione va trovata altrove: siamo in presenza, nei due casi, quello riguardante i rumeni e quello relativo al monumento, di un tipico “effetto collaterale” dovuto, rispettivamente, da una parte alla scelta del filogovernismo, dall’altra, alla volontà di liquidazione del comunismo (ma in tutti e due i casi, questi aspetti sono presenti entrambi). È poi vero che di fronte alla nascita del PD, che alla luce di quanto abbiamo detto nel secondo paragrafo e con un po’ di immaginazione possiamo considerare come la ripetizione farsesca del Compromesso Storico, l’asse politico dell’intero schieramento del centrosinistra si è spostato verso destra (e l’adozione di politiche razziste e securitarie - prese in prestito dai programmi e dalle idee della destra - volte a sfogare il disagio sociale del nostro paese tramite l‘individuazione di un capro espiatorio: ieri i lavavetri oggi i rumeni, lo sta a dimostrare). Ma ciò non significa che un Partito comunista, in mezzo a cambiamenti in senso reazionario del sistema partitico generale, debba farsi trascinare da questa deriva come una zattera nel bel mezzo di un uragano.



5. La tattica e la strategia. Al prossimo Congresso resusciteremo il Che con l’intransigenza!



Alla confusione tra il concetto di tattica e quello di strategia è strettamente correlata un’evidente deriva ideologica di tipo socialdemocratico (per quanto in senso massimalista). Difatti i bertinottiani non si pongono con un atteggiamento radicalmente volto al superamento del capitalismo ma con un atteggiamento compatibilmente volto, tutt’al più, a contrastarne gli effetti, per così dire, più selvaggi. Facendo arrendevolmente di questo un fine, l’ultimo passo, la strategia e non, tutt’al più, un mezzo, il primo passo, la tattica per perseguire la costruzione di una società e di un modello di stato nuovo in senso comunista. Siamo di fronte, all’interno del nostro partito, all’egemonia di una logica compatibilista (di stampo socialdemocratico) su quella radicalista (di stampo comunista).
Delle due l’una: o, come abbiamo appena detto, si fa della tattica la strategia, o si confonde la basilare differenza tra i due concetti fino a fonderli insieme. È altamente probabile che in molti casi sussistano entrambe le ipotesi. Ma non c’è dubbio che, in entrambe, la costante è sempre la stessa: il moderatismo, il filogovernismo o, in soldoni, l‘attaccamento alla poltrona (spesso è una miscela tra queste). Insomma: per dirla, questa volta, col Che:
“ogni divergenza a proposito della tattica, del metodo d’azione per il raggiungimento di obiettivi limitati deve essere analizzata con il rispetto dovuto alle opinioni altrui. In quanto al grande obbiettivo strategico, la distruzione totale dell’imperialismo attraverso la lotta, dobbiamo essere intransigenti” (Ernesto Che Guevara, Creare due, tre, molti Vietnam è la parola d’ordine; Opere Scelte, Vol. II, Pag. 596, Baldini&Castoldi, Milano, 1996).
Se io muoio non piangere per me, fai quello che facevo io e continuerò vivendo in te” recita uno dei più celebri aforismi del Che. Quest‘anno intercorre il suo quarantesimo anniversario di morte (l’eroe rivoluzionario argentino venne assassinato il 9/10/1967) e, da comunisti, il minimo che possiamo fare è di lottare con tutte le nostre forze al prossimo Congresso del Partito che si terrà, non più a Gennaio, né il prossimo Marzo, ma forse tra quasi un anno. (La maggioranza continua a spostare la data in avanti per prender tempo: vuole lo scioglimento del Partito entro la Cosa Rossa, che, a quanto pare, vorrebbero chiamare “la Sinistra” con tanto di arcobaleno nel simbolo; e appoggia a spada tratta l’introduzione nella nuova legge elettorale di una soglia di sbarramento del 5% al fine di accelerare politicisticamente questo funesto processo volto, lo ribadisco una volta per tutte, a liquidare il comunismo in Italia). E al Che possiamo promettere che l’occasione decisiva in cui una parte di lui vivrà in noi sarà proprio questa. Daremo battaglia. Contro coloro che insabbiano il “grande obbiettivo strategico” della “distruzione totale dell’imperialismo attraverso la lotta, dobbiamo essere intransigenti”!
L.P.







Studi umanistici “tecnologici”:
il (presente e il) futuro della ricerca



di Nicola Serafini



Eravamo indecisi tra
esultanza e paura
alla notizia che il computer
rimpiazzerà la penna del poeta.
Nel caso personale, non sapendolo
usare, ripiegherò su schede
che attingono ai ricordi
per poi riunirle a caso.
Ed ora che m’importa
se la vena si smorza
insieme a me sta finendo un’era.

(E. MONTALE)



«Nel panorama contemporaneo della cosiddetta globalizzazione, del primato della tecnologia e della comunicazione di massa, quale fiducia del futuro può ancora avere lo studio sia linguistico sia letterario sia filosofico e anche scientifico della cultura greca e romana? Un problema, quello del valore degli studi classici, che si è proposto più volte nel passato1 nei momenti di crisi, in coincidenza con le grandi trasformazioni sociali ed economiche. E ogni volta, attraverso percorsi diversi, si è riaffermata perentoriamente la necessità di salvaguardare lo studio della civiltà greca e latina»2. Così incipiava Bruno Gentili – membro dell’Accademia dei Lincei, fra i più autorevoli e stimati filologi classici dell’epoca contemporanea – il notevole intervento3 da cui prende le mosse questa nostra dissertazione.
Per quanto sconcertante, occorre ammettere che attualmente il progetto di un sistema scolastico fondato unicamente sulla specializzazione tecnica può produrre – e di fatto ciò avviene – dei “guasti intellettuali”, una sorta di dissesto sociale e culturale, che inevitabilmente conduce ad una sorta di “analfabetismo”, che Enzensberger4 definisce “analfabetismo di ritorno” o di “secondo grado”, in concomitanza alla minaccia di estinzione di percorsi formativi che riservino il dovuto spazio agli studi classici, e umanistici in senso lato. Il “nuovo analfabeta” è sprovvisto di memoria storica e letteraria, è «un individuo senza passato, perché privo di conoscenza storica, buon tecnico, ma disabituato alla lettura, particolarmente alle letture formative e di non immediata utilità, e alla riflessione critica»5.
Proprio la preferenza data ad una formazione strettamente ancorata al concetto di “utilità”, una formazione tesa unicamente verso una stretta preparazione specialistica che assicuri validi sbocchi professionali, proprio questa è la causa precipua di quel “nuovo analfabetismo”, diffusissimo fra le classi benestanti, dai professionisti, agli imprenditori come ai dirigenti d’ogni sorta, ai funzionari pubblici, per non parlare della gran parte della popolazione giovanile impegnata in studi tecnici, e che probabilmente ha già perduto la dimestichezza con la “lettura”.
Ora, tutto ciò apparirà ancora più perspicuo se si terranno presenti le considerazioni di Franco Ferrarotti: «Interrogarsi sulla pagina, rileggere un capoverso, riflettere su un pensiero sono diventate operazioni rare, curiose e fin stravaganti […] La stessa architettura di un libro sembra che ponga oggi un peso intollerabile alla capacità di memoria del lettore medio. Si rifiuta la coerenza di una costruzione troppo elaborata. Viene concepita ed esperita come fatica eccessiva. La capacità di tenuta intellettuale si è indebolita. Scarseggia il gusto per ragionamenti solo di poco superiori alla media. Si preferiscono libri […] che sono già, in nuce, sceneggiati televisivi»6.
A ciò si aggiunge il fenomeno della “seconda oralità”: così chiamata per distinguerla dalla oralità “prima”, propria della civiltà arcaica. In sostanza, quello a cui stiamo assistendo è una sorta di percorso speculare rispetto a quello che si verificò in Grecia, a cavallo fra il V e il IV sec. a.C., ove alla parola cantata, parlata, o recitata, si andò a grado a grado affiancando – N.B.: non sostituendo, ma affiancando, perlomeno nel periodo in questione – la parola scritta, che nella sofistica trovò il sostegno necessario ad una pronta e duratura diffusione: ebbene, con la diffusione di comunicazioni “orali”, quali possono essere la televisione, la radio, e perfino Internet (se con “orale” intendiamo anche tutto ciò che è dinamico, non cristallizzato, sempre pronto a dare nuove risposte), siamo in presenza di un vero e proprio “ritorno all’oralità”, a discapito di quella “cultura scritta” che invece in quell’epoca lontana soppiantò l’esecuzione rapsodica dei poemi epici, le recitazioni liriche corali, e tutte le manifestazioni paideutiche che erano adibite ad istruire il popolo greco, e che invece, con l’avvento della sofistica, videro l’approccio all’istruzione passare attraverso la parola scritta.
Ora, non manca chi prospetta un totale sopravvento del computer anche per la cultura filologica e umanistica7, che dovrebbe sottrarre allo specialista il monopolio delle conoscenze, rendendo disponibili a tutti un numero immenso di dati, memorizzati in una sorta di “memoria collettiva”. In sostanza, quella che si prospetta è una sorta di banca dati elettronica che sia accessibile a tutti coloro che vogliano intervenirvi ed inserire nuovi dati, sì da creare un’edizione dinamica, fluida, in “continuo divenire”: mutatis mutandis, il ritorno ad una forma di «cultura bardica», per usare l’espressione coniata da altri8 riguardo alle forme attuali di comunicazione di massa. Non appare poi tanto differente da quello che nella Grecia antica erano le edizioni dei poemi omerici katà pòleis e kat’ àndra, che sino alla sistemazione critica della filologia alessandrina rimasero in “continuo divenire”.
Concordiamo appieno però con Gentili, quando dice: «Non c’è dubbio che il computer è uno strumento utilissimo e imprescindibile per conservazione, stemmatica, concordanze, formazione di ipertesti, tecniche relative alla lettura dei manoscritti. Ma non potrà sostituirsi, almeno per ora, all’attività operativa del filologo nell’elaborazione di un’edizione critica»9.
Rispetto a questo processo che pare irreversibile, in atto già da anni, che sempre ha suscitato e sempre (probabilmente) susciterà plausi e dissensi, e che procede ad un ritmo tremendamente sostenuto, ancora una volta «la Grecia antica può indicarci un termine di confronto per affrontare il difficile momento di trapasso all’era del computer e della nuova oralità»10.
Ancora una volta, perché quanto appena detto potrebbe apparire forse come un luogo comune – e di fatto non lo è per nulla! – ormai logoro, ad uso e consumo dei filologi classici e da loro spesso e volentieri ripetuto: ma così non è. Ancora una volta, perché non ostante anch’esse possano sembrare della stessa specie, anche le parole di Privitera suonano difficilmente confutabili: «Studiando la civiltà greca ci sentiamo coinvolti. Avvertiamo di avere dinanzi un fenomeno organico, rappresentato da opere significative e di alta caratura: qualunque pensiero formuliamo, ci sembra che abbia avuto in Grecia il suo inizio, che sia già stato elaborato, o intuito dai Greci»11. E non possiamo dargli torto.
Infatti, il fenomeno del passaggio dall’oralità alla scrittura investì l’intera generazione di Platone, e da lui – in particolar modo – fu vissuto intensamente, sul piano filosofico, ma anche su quello della sua attività di scrittore: sopra tutto nel Fedro (474b-476a), egli mostra di aver pienamente compreso che la scrittura causa un indebolimento della memoria, che, se interrogata, non può rispondere, mentre la parola parlata permette il confronto dialettico, è attiva, efficace, “agonistica”, e immersa nel concreto della comunicazione; inoltre, e questo non è da sottovalutare, nel discorso orale il locutore e l’allocutore condividono la stessa dimensione spazio-temporale.
Pur tuttavia, egli de facto scrive. E non avrebbe potuto fare altrimenti, per ragioni intrinseche quali la possibilità di sviluppare periodi articolati e ipotattici – ben lontani dalla paratassi tipica della cultura orale –, ma anche per ragioni estrinseche all’opera stessa, su tutte, la diffusione maggiore della parola scritta, non vincolata da legami di tempo o di spazio, come appunto per primo disse Pindaro (nella Nemea V per Pitea d’Egina, vv.1 sgg), sostenendo che le sue odi non avevano vincoli, a differenza delle opere scultoree, bensì potevano essere ammirate e diffuse ovunque, e varcare i mari «sopra un bastimento e su un vascello» [v.3].
Ma Platone non rinuncia alla dinamicità della parola parlata, e – con un’istruttivo escamotage – egli concilia le due dimensioni (speculari), rivestendo i suoi scritti della formai dialogica, e assumendo pure il mito, per quanto anch’esso da lui aspramente stigmatizzato altrove. Ora, l’esempio di Platone ci pare moderno, in maniera quasi sconcertante, perché questo rapporto di “apparente inconciliabilità teorica” oggi rivive, seppure capovolto nei suoi assunti: c’è chi sostiene i media elettronici, c’è chi li avversa, c’è chi rimane indifferente, e infine c’è chi li taccia di estinguere la “dimensione” del libro e della lettura, ma nello stesso tempo, tutti li usiamo.
Il problema di fondo è che «la lettura e l’apprendimento sui libri costituiscono pur sempre un’esperienza fondamentale per comprendere l’uomo in relazione alle sue aspirazioni più alte»12, sono parte integrante del percorso umanamente e socialmente formativo di ciascun individuo; pertanto, sembra pleonastico dire che accanto ad una formazione tecnica debba sempre accompagnarsi un’educazione di più ampio respiro, che rifugga ogni tanto dal concetto (per noi certo esecrabile) di “utilità”: anche gli studi “non-utili”, sono in realtà “utili”, in maniera diversa, ma comunque imprescindibile.
Una cultura di base di tipo umanistico si configura come il migliore supporto, come una sorta di pietra angolare, su cui poggiano le molteplici forme e branche del sapere specialistico, in ogni sua forma, come è stato ribadito anche da Allan Bloom13 in un saggio intitolato La chiusura della mente americana: questo titolo ci porti a riflettere su quanto detto; infatti, una delle tante funzioni dello studio umanistico è anche quella di sviluppare le facoltà immaginative, di pari passo con l’inevitabile meditazione che segue la lettura. Tutte cose che la formazione tecnica non può neppure sognarsi di conferire, quando addirittura essa stessa contribuisce alla “chiusura mentale” e alla non-dimestichezza con l’approccio mentale richiesto da una lettura elaborata.
Con Privitera, prima dicemmo che «qualunque pensiero formuliamo, ci sembra che abbia avuto in Grecia il suo inizio, che sia già stato elaborato, o intuito dai Greci» [ved. supra]: così anche se osserviamo il problema nell’ottica più generale, vedendo nello sviluppo tecnologico un passo del progresso.
Essi ebbero ben chiaro il concetto, ma paradossalmente non avevano una parola atta a designarlo, perlomeno fino all’epoca tarda, in cui alla generica epìdosis subentrò il termine prokopé, che costituisce l’archetipo del nostro vocabolo, attraverso la mediazione del latino (progressus). La prima attestazione del concetto di “progresso” si ha in Senofane – vissuto nel VI sec. a.C. –, ove si legge in un frammento (fr. 20 Gentili-Prato) che «gli dèi non mostrarono tutto agli uomini fin da principio, ma coloro che cercano [“investigatori” (zetoùntes), ndc.] trovano ciò che è migliore [“più buono/utile” in tutte le accezioni possibili (àmeinon), ndc.]».
Ma essi ebbero ben chiaro anche ciò che forse a noi non è così patente: che ogni avanzamento umano ha un carattere ambiguo, «talora muove verso il male, talaltra verso il bene»[v.367], come scrive Sofocle in un celebre stasimo – vv. 332-375 – dell’Antigone, in cui, con parole ancora attuali, parla dell’inventiva dell’uomo, della sua abilità nelle arti, e quindi (diremmo noi) del suo “progresso”14.
Ma ciò che più conta, e dovremmo imparare da questo, nella mentalità greca il “nuovo” va respinto qualora si dimostri non essere un effettivo miglioramento: «Il progresso esige costanti verifiche, per far sì che quella vita che senza progresso tecnologico-scientifico sarebbe “non vivibile” (abìotos) non divenga a sua volta “indegna di essere vissuta” (ou biotòs)»15.
Il fatto è che mai come ora suonano attuali i propositi della retorica greca: le norme che regolano le telecomunicazioni, i messaggi pubblicitari, ogni genere di testo audio-visivo, ebbene, sono le stesse norme di inventio, dispositio, elocutio, memoria e actio teorizzate in quell’epoca antica. Ed Henry Marrou16 nota – a ragione – come le tecniche comunicative abbiano insegnato anche ai politici quanto sia importante l’atteggiamento dell’oratore, l’espressione, il linguaggio del corpo, le modulazioni tonali della voce (e quant’altro), tutti quei modi che concorrono a persuadere l’uditorio.
Ora, secondo la prospettiva di Hans Robert Jauss17, non intendiamo propugnare un’attualizzazione acritica che ricerchi disperatamente nel passato conferme ad interessi attuali, bensì creare una sorta di “dialogo” tra noi ed un passato che ancora continua in qualche modo ad influenzarci. In sostanza, anche le culture del passato meritano attenzione, in quanto svelano i loro significati solo se rapportate ad altre, solo se indagate, solo se “arricchite” dalla nostra attenzione, quasi in una sorta di astratto, meraviglioso, mutuo scambio fra due diverse situazioni, la nostra e quella antica, che «non si fondono né si confondono, ma si arricchiscono reciprocamente»18. Il vecchio umanesimo estetico ed il neo-umanesimo etico assumevano i valori antichi come modello e paradigma di valori insuperabili ed insuperati: non è quello che caldeggiamo. Piuttosto, dobbiamo riproporre una rilettura dei classici più coerente con la nostra dimensione culturale di ricerca, più consapevoli del divenire storico, una rilettura che tenda ad individuare la dimensione in cui il testo nacque, senza mai conferire ad esso un valore paradigmatico, ma rapportando le situazioni in cui il testo si inserì con le nostre attuali: ecco l’unico modo per trarre qualche insegnamento storico dal patrimonio classico.
Concludiamo, dicendo – ancora una volta con Gentili – che «il compito più difficile e impegnativo della realtà contemporanea consiste proprio nell’armonizzare la verticalità delle proprie tradizioni storiche con l’orizzontalità delle altre tradizioni culturali che entrano a far parte integrante della nostra società, senza rinunciare alla nostra innegabile identità europea, di cui il mondo classico è il fondamento»19.
N.S.



1 Vale la pena citare S. Settis, Il futuro del classico, Torino 2004; e L. Canfora, Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, Milano 2004.
2 B.Gentili, Poesia e pubblico nella Grecia antica, [vincitore del Premio Viareggio, pubblicato da Laterza, Roma-Bari (1984; 1989; 1995;), edizione inglese: Baltimore-London 1988; edizione spagnola: Barcellona 1996; ora in edizione aggiornata: Feltrinelli, Milano 2006, da cui citiamo] p.354.
3 Tra ricerca umanistica e ricerca scientifica, presso il Convegno di studi “Scuola e cultura classica”, Lamezia Terme, 1-2 marzo 2004 [ora anche nell’ed. aggiornata di B. Gentili, loc. cit., pp.354-369], al cui intervento non possiamo non riconoscere il nostro debito, per parziale che sia, nella stesura del presente.
4 Cfr. “L’Espresso”, 32.7 del 23 febbraio 1986, pp.76 sgg.
5 B. Gentili, loc. cit., p.355. [corsivo nostro].
6 F.Ferrarotti, La sociologia alla ricerca della qualità, Roma-Bari 1989, pp.114 sg.
7 Così P.M.W.Robinson, secondo cui attraverso il computer, ogni lettore avrà accesso a tutti gli strumenti finora riservati al critico, annullando così la differenza fra edizione critica ed edizione d’uso personale [P.M.W.R., Redifining Criticals Editions, in G.P.Landow-P.Delany, The digital World: Text-based computing in the Humanities, Cambridge-London 1993, pp.271-291].
8 J.Fiske – J.Hartley, Reading television, London 1978.
9 B. Gentili, loc. cit., p.356. [corsivo nostro].
10Loc. cit., p.357.
11 G.Aurelio Privitera – R.Pretagostini, Storia e forme della letteratura greca, Einaudi, Milano 1997, p.9. [corsivo nostro].
12 B. Gentili, loc. cit., p.359.
13 A.Bloom, The closing of the american mind, 1987, [trad. it. La chiusura della mente Americana, Milano 1988].
14 Cfr.:«(L’uomo) imparò parola e pensiero “agile come il vento”, e disposizioni civili [costumi, usanze cittadine e comunitarie, ndc.]» (vv.354-6). E più sotto: «Avendo la sapienza delle arti dell’abilità dell’ingegno (tò machanòen technas), oltre ogni aspettativa, talora verso il male, talaltra verso il bene (ep’esthlòn) avanza» (vv.365-7). Abbiamo tradotto esthlòs con “bene”, ma esso racchiude ogni sfumatura semantica del concetto, quindi anche “gioia”, “fortuna”, “felicità”... Mentre tò machanòen technas intende “le capacità di escogitare risorse”, “il potere dell’inventiva”, “l’arte dell’ingegnosità”.
15 B. Gentili, loc. cit., p.365.
16 H. Marrou, Education and Rhetoric, in M.I. Finley, The legacy in Greece, Oxford 1981, p.171.
17 H.R.Jauss, Alterität und Modernität des Mittelalterlichen Literatur. Gesamte Aufsätze 1956-1976, München 1977 [trad. it. Alterità e modernità della letteratura medievale, Milano 1989].
18 B. Gentili, loc. cit., p.368.
19 Loc. cit., p.369.






Un imperialismo dei diritti umani



di Emiliano Alessandroni



Sul libro di Eric Hobsbawm: "Imperialismi", Rizzoli 2007, pp. 80



Un libro semplice e di facile lettura quello di Eric Hobsbawm (Imperialismi, Rizzoli 2007 pp. 80) in cui, con parole semplici e molto spigliate si propone un disegno dell'attuale equilibrio mondiale. Un ennesimo schiaffo, potremmo definirlo, alla teoria operaista di Toni Negri, il quale scorgerebbe la contraddizione odierna in un conflitto aperto tra la moltitudine e un fantomatico "impero" sovranazionale. Per Hobsbawm, al contrario, non vi sono dubbi: l'impero è oggi più nazionale che mai e porta il nome di Stati Uniti d'America: il crollo dell'Unione Sovietica ha aperto la strada agli USA permettendogli di diventare «la potenza egemone del mondo occidentale» (p.50); la scomparsa dell'Urss ha infatti «rimosso un potente freno che agiva sulle guerre tra Stati e sugli interventi di singoli paesi negli affari interni di altri Stati: durante la Guerra fredda le frontiere nazionali erano rimaste in gran parte inviolate dagli eserciti» (p.29); la sua fine ha invece comportato un tragico aumento degli «interventi armati» e delle «guerre interstatali»(p.30) e una situazione in cui «gli Stati Uniti si sono ritrovati ad essere l'unica superpotenza rimasta» (p.52) per la quale il «primo obiettivo...è una pubblica affermazione» della propria «supremazia globale...attraverso l'uso della forza militare» (p 52-53).Un imperialismo estremamente aggressivo è dunque quello americano, che tiene sotto scacco l'intero pianeta, e paragonabile per moltissimi aspetti a quello dei «più grandi imperi conquistatori del passato» (p.70). Ma la sua aggressività non si manifesta semplicemente nel processo di smembramento del Terzo Mondo, dove la sua «schiacciante potenza» permette l'invasione di «qualunque paese che sia abbastanza piccolo e nel quale» sia possibile «conseguire la vittoria con sufficiente rapidità»(p.57), bensì anche nella capacità di saper sfuggire e talvolta scardinare ogni limitazione proveniente dalle altre nazioni occidentali.Oppostisi sempre «al nascere di una potenza militare in Europa» (p.51), gli USA sono riusciti ad imbrigliare un'organizzazione interstatale come la Nato con il semplice usufrutto della loro superiorità tecnologica. La Nato, sebbene rappresenti formalmente una pluralità di stati, rimane infatti soggetta alle volontà degli Stati Uniti poiché paga «la dipendenza nei confronti della tecnologia militare di quest'ultimi» (p.51).L'Onu, dal canto suo, «ha sempre avuto una capacità di intervento soltanto marginale a causa della sua totale dipendenza dal Consiglio di sicurezza e della possibilità, da parte degli Stati Uniti, di ricorrere al diritto di veto» (p.59). Dovrebbero fare riflettere queste considerazioni sulle reali possibilità di tali organismi di essere a tutti gli effetti garanti della giustizia internazionale. La supremazia americana è a dir poco smisurata e nulla le impedisce «di intervenire in modo decisivo con la forza delle armi ogni volta che qualcuno fa qualcosa che Washington non gradisce» (p.60). Con la forza delle armi e non solo, bisognerebbe aggiungere per completare il disegno politico attuale: nella strumentazione Usa per la costruzione e il mantenimento del proprio dominio andrebbero anche indicati la campagna di demonizzazione contro i paesi su cui il governo statunitense ha posto la mira, il finanziamento di moti separatisti all'interno delle nazioni in qualche modo ostili o che potrebbero ostacolare il progetto del "New american Century" (uno su tutti è l'esempio del Tibet: mai stato così nelle grazie di Washington come da quando in Cina è andato al potere il Partito Comunista), e continui embarghi economici volti a stringere i paesi colpiti in una morsa di inedia e di stenti e definiti da alcuni storici attuali come "forme post-moderne di campi di concentramento". Ciononostante, afferma Hobsbawm, sebbene rimanga impossibile stabilire la durata dell'impero americano, «l'unica cosa di cui siamo assolutamente certi è che sarà un fenomeno storicamente transitorio, così come lo sono stati tutti gli altri imperi» (p.62) . E' questa, a nostro avviso, e in sintonia con Canfora (cfr. Luciano Canfora: L'ultimo impero su «Il Corriere della Sera» del 22 marzo 2007), una nota stonata del libro, troppe volte ripetuta per non farne menzione. Diversamente tuttavia da Canfora che, prendendo le distanze dall'ottimistica previsione di Hobsbawm, si premura a ragione di giustapporre, alle analogie evidenziate dallo storico inglese, le differenze fra l'impero statunitense e quelli del passato, la disapprovazione riguarda qui una generale questione di metodo. Fa sicuramente bene Hobsbawm a mettere in luce la problematica del consenso: per l'estensione o la conservazione della propria supremazia gli Usa necessitano tanto di un potere economico-militare quanto di un potere consensuale. Il potere consensuale è tuttavia negli ultimi anni, dice Hobsbawm, vistosamente diminuito anche per errore degli stessi dirigenti politici americani. Se per un lungo periodo di tempo «l'Europa riconosceva la logica di un impero mondiale guidato dagli Stati Uniti,... oggi il governo statunitense si trova a doversi confrontare con il fatto che l'impero americano e i suoi obiettivi non sono più sinceramente condivisi» (p.50). A guardar bene, nemmeno il potere economico è più così saldo: «a partire dal 1997-98, stiamo attraversando una crisi dell'economia del mondo capitalista» e quindi sarà «improbabile che gli Stati Uniti continueranno a portare avanti questa loro ambiziosa politica estera quando si ritrovano con gravi problemi da affrontare in patria» (p.63). Malgrado ciò, affermare di essere «assolutamente certi» del trapasso dell'impero americano significa fare della mera utopia. Non perché sarebbe giusto affermare il contrario - il che sarebbe un'utopia di non minore dimensione - ma perché, come si suol dire, historia docet e, in questo caso, soprattutto la nostra. Già nel 1848 i tumulti rivoluzionari in Europa avevano fatto pensare a Marx la caduta prossima del capitalismo. Previsione decisamente errata. Il Capitale riproporrà più tardi tale previsione con argomentazioni scrupolosamente più scientifiche. Quasi un secolo e mezzo è passato e il sistema capitalistico è ancora in piedi, più saldo e vigoroso che ai tempi di Marx. Tutto ciò dovrebbe insegnare che lo studio delle tendenze di un determinato sistema o di una determinata situazione storica (tanto più quella di oggi), possono lasciare intravedere soltanto approssimativamente e non certo "con assoluta certezza" quello che accadrà nel futuro. Intanto perché l'analisi può rischiare di essere parziale e viziata dalle proprie speranze personali (Canfora ha mostrato per l'appunto la parzialità dell'analisi di Hobsbawm consistente nel vedere solo analogie chiudendo gli occhi sulle differenze), in secondo luogo perché a determinate tendenze di oggi possono sempre seguire controtendenze di domani che ci impongono di rivedere la nostra valutazione. Per fare solo un esempio, il 2003, in seguito alla guerra in Iraq, presentava un quadro storico in cui gli Usa erano quasi sulla rotta di collisione con Francia e Germania. La tendenza - si sarebbe potuto dire allora - è quella di un grande conflitto politico che entro breve nascerà fra Europa e Usa. Permette la situazione attuale di affermare ancora ciò e negli stessi termini?Sebbene Hobsbawm non si spinga così lontano come Marx, sebbene egli non affermi di prevedere la fine capitalismo ma, molto più limitatamente, la fine dell'impero americano, commette pur sempre un'astrazione utopica nella misura in cui evade dalle contraddizioni oggettive per elaborare costruzioni mentali su un futuro ancora da compiersi.Occorrerebbe mantenere al contrario, entro un'unità di pessimismo dell'intelligenza e ottimismo della volontà propri di un Machiavelli o di un Gramsci, sempre i piedi legati alla realtà effettuale per non incorrere in concezioni fiduciosamente deterministe e consolanti. Più che chiedersi se e quando terminerà la supremazia americana (domanda che riguarda, come già detto, un impreciso futuro evadendo dalla realtà contingente e che riscuoterebbe le più svariate e approssimative risposte) sarebbe invece più opportuno studiare il presente "così com'è" e le contraddizioni da esso espresse per individuare e sostenere quei soggetti storici in grado di superarlo. Da questo punto di vista ciò che sembra mancare al libro di Hobsbawm è un'indicazione delle forze antagoniste sulle quali si potrebbe e si dovrebbe contare per il superamento di questa nostra nuova fase imperialistica. Lo studio sulla nostra realtà politica sarebbe completo se ad accompagnare Imperialismi vi fosse un altro pamphlet intitolato Rivoluzioni. Un libro che abbia cioè per oggetto d'indagine l'altra polarità del conflitto in corso; soggetti popolari e soggetti nazionali già esistenti, da sostenere nel momento storico attuale, non per attendere passivamente, ma per costruire attivamente il trapasso della supremazia americana. Per ora abbiamo avuto la pars destruens, adesso attendiamo la pars construens.
E.A.




Quando la torcia della ragione si surriscalda…
Occhio a non scottarsi con le sue menzogne!




Note sulla Birmania e sulla Cina: corrispondenza tra Leonardo Pegoraro (Coordinatore dei Giovani Comunisti di Urbino) e Samuele Mascarin (Segretario della Sinistra Giovanile della Provincia di Pesaro e Urbino)




Figura I - Bertold Brecht

“Quando chi sta in alto parla di pace, la gente comune sa che ci sarà la guerra. Quando chi sta in alto maledice la guerra, le cartoline precetto sono già state compilate”.(Bertolt Brecht)
“La nostra politica attuale è di porre dei limiti al capitalismo, non di distruggerlo” (Mao Tse-Tung)
“Socialismo significa eliminazione della miseria” (Deng Xiaoping)




Così i detentori della torcia della ragione:
“Si fermi ogni azione repressiva e siano liberati Aung San Suu Kyi e tutti i detenuti politici. In Birmania si sta combattendo una lotta per la libertà e la democrazia che ci riguarda tutti. Ogni democratico è chiamato a fare la propria parte. Il popolo birmano e i monaci buddisti non siano lasciati soli: l’Italia democratica faccia sentire con forza la sua voce!” (Firmato: Sinistra Giovanile della provincia di Pesaro e Urbino)
Era prevedibile (anche se, purtroppo, sempre sconcertante per chi, come me, ha una concezione della democrazia e della libertà diametralmente opposta rispetto a questi sedicenti amanti dei popoli oppressi!) ascoltare tali parole da parte della “sinistra” (sic!) giovanile (alla coda della nuova versione pecoreccia new teo-dem degli ex DS ora divenuti appunto PD), di fatto appiattitasi sulle posizioni dell’imperialismo, forti delle stesse parole e argomentazioni (pretestuose e ipocrite) del “neo-nazismo” di stampo israelo-statunitense.
Perché ogni vero democratico possa fare la sua parte è necessario almeno che disponga di informazioni sulla situazione in Birmania che si sappiano distinguere dal coro filo-yankee dei mass-media che ci bombardano quotidianamente. A tal riguardo è davvero chiarificatore leggere quanto segue:
“Il delitto della giunta militare birmana si chiama Cina, un paese con cui il suo commercio è aumentato del 39,4% nei primi sei mesi dell’anno, con un’impresa petrolifera – PetroChina- che si è aggiudicata l’acquisto del gas birmano a danno dell’indiana ONGC, senza dubbio di un paese più amico degli Stati Uniti che della Cina. Agli Stati Uniti non importa nulla né della democrazia né del rispetto dei diritti umani nel Myanmar.
Si dice che la dittatura birmana abbia in Cina il suo migliore protettore. In verità però, fino ad oggi anche in India, senza che questo abbia rappresentato un motivo di indignazione. Il fatto è che dipende sempre da coloro di cui sono amiche le dittature. Per questo Bush ha citato nell’assemblea generale dell’ONU Myanmar, ma non altri regimi, come il Pakistan, Sri Lanka, sconvolta da una crudele guerra civile, Bangladesh o Tailandia. Quelli non devono espiare il peccato di essere amici della Cina, possono andare avanti nella repressione.
E’ tutto preparato per la “transizione” pilotata dagli Stati Uniti: governanti cattivi, sangue nelle strade e telecamere.”
(Obiettivo Birmania di Pascual Serrano del 29/09/2007 su http://www.resistenze.org/sito/te/po/bi/pobm7i29-002033.htm)
Ma i “democratici” della “sinistra” giovanile hanno mai sentito parlare di quella che viene definita da qualcuno come la “nuova guerra fredda” - che vede come protagonisti gli Usa da una parte e la Cina dall’altra - verso cui si sta muovendo l’attuale ordine internazionale (vedi lo scudo stellare che verrà installato alle porte della Russia)? Come fare a non capire che un eventuale attacco alla Birmania e il suo controllo costituirà un passo avanti per l’imperialismo e i sui alleati (più o meno fedeli)? E perché non dire che, ad esempio, nel caso in cui dovesse toccare alla Cina (e cioè ad un quarto della popolazione mondiale) lo stesso trattamento che è toccato alla Russia - la quale, a causa del crollo del socialismo, è stata colpita dalla diminuzione delle aspettative di vita del suo popolo di oltre dieci anni - si condannerebbe una fetta così grande della popolazione mondiale ad una drastica involuzione delle condizioni di vita? Siamo sicuri che, da questo punto di vista, l’appoggio unilaterale ad un eventuale Eltsin cinese (che verrebbe di certo sostenuto dalla “sinistra” giovanile) costituirebbe un passo avanti per la libertà e la democrazia? Perché inorridire di fronte a questa crisi e non (o almeno non con la stessa determinazione e coerenza) nei confronti, solo a mero titolo esemplificativo, dell’olocausto irakeno che dal ’91 ad oggi, passando per uno spietato e infanticida embargo, ha causato la morte di circa tre milioni di persone a cui vanno aggiunti altri circa tre milioni di persone che sono fuggite dal paese? Sommati f
Figura II - Bin Laden e Bushanno circa sei milioni, una cifra significativa e che ricorda molto… Come non appoggiare la resistenza partigiana irakena (eccetto però Al Qaeda che è un prodotto della CIA)? In Irak non si consuma forse uno sterminio e una violazione del diritto internazionale di fronte ai quali i responsabili (Bush in testa) dovrebbero rendere conto, magari come ha suggerito Hugo Chavez, di fronte ad un tribunale internazionale? Come accettare lezioni di democrazia, di libertà e di rispetto dei diritti umani dai responsabili di queste come di tante altre tragedie (gli USA godono di un triste primato, calcolato a partire dalla fine del ‘700: sono stati i promotori, in media, di una guerra ogni due anni)?
Lascio la risposta a queste e ad altre domande, per usare le parole dei detentori della torcia della ragione, ad ogni democratico, che è chiamato a fare la sua parte.




[Questa la prima risposta di Leonardo Pegoraro alla Sinistra giovanile].
Di seguito, la risposta di Samuele Mascarin:




Caro Leonardoho avuto finalmente modo di leggere la tua risposta alla mail della Sinistra giovanile (scusami, ma ignoravo l'esistenza del sito GC di Urbino).Evito di dilungarmi sulle battute - per altro abbastanza fiacche e da oratorio - su la "sinistra virgolettata", i "teodem", il "PD", e la Sinistra giovanile.(del resto se è vero che Dio è morto, Marx è morto, e anche la Sinistra giovanile non sta troppo bene...è altrettanto vero che almeno siamo in tanti a non star troppo bene!)
Nel merito della poche considerazioni politiche che ci hai proposto mi limito – non da detentore della “torcia della ragione” ma – molto piu’ modestamente - da militante di sinistra, che negli ultimi dieci anni ha collaborato in Italia e all'estero con il movimento degli studenti universitari birmani e le sue organizzazioni (le stesse che dopo il massacro dei militari del 1988 all'università di Rangoon sono state costrette all'esilio e che in alcuni casi sono entrate a far parte dell'Internazionale Socialista) - a dire che al di là delle grandi valutazioni geopolitiche (che pure hanno un loro senso, per carità), mi pare azzardato ridurre o addirittura non riconoscere il valore e il senso di una battaglia democratica che fino ad oggi ha visto in quel paese decine di migliaia di oppositori pagare con il carcere, la tortura, l'esilio o la morte. E non lo dico io, lo dice A.I. Una battaglia che in prima fila vede un Premio Nobel per la Pace. Non voglio dire Mandela o Arafat, però…Per il resto i rapporti politici, militari e economici del regime militare birmano con la Cina (che, notoriamente, non è nè una democrazia, nè un paese socialista, ma un regime autoritario turbocapitalista in cui i lavoratori sono sfruttati quanto basta e che quanto a vocazione imperialista gareggia allegramente con gli USA da almeno trent’anni… e non certo per il benessere delle masse sfruttate del pianeta!) sono noti e penso che di certo non facciano piacere agli USA. Come, del resto, credo non facciano piacere all’India, altra superpotenza regionale. E immagino anch’io che il Dipartimento di Stato non sia indifferente a quanto sta accadendo nel paese asiatico. Detto ciò penso che non ci dovrebbero essere comunque problemi a dire che quello birmano è un regime militare e le giunte militari e i soldati che sparano sui cortei di protesta sono sempre esecrabili. Lo erano a Derry nel 1973, lo erano nel 1969 ad Atene, lo erano nel 1989 in Piazza Tienamen,… Nessuna torcia della ragione, quindi. La nostra è semplicemente l’indignazione di chi vede gente disarmata colpita per le strade da gente armata. Almeno così la viviamo noi… punti di vista diversi, evidentemente.Ad ogni modo se vuoi parlarne direttamente in questi giorni noi stiamo facendo anche un po’ di iniziative sulla vicenda birmana. Parliamone. Magari alla manifestazione di solidarietà che si terrà sabato 6 ad Ancona (a cui partecipano anche i compagni di Rifondazione Comunista) o alla Marcia della Pace Perugia/Assisi di domenica 7.A presto!



Ancora, di risposta, Leonardo Pegoraro:




Caro Samuele,
grazie per avermi risposto.
Con tutto il rispetto per la tua persona, devo subito dire che se c’è una cosa che proprio non sopporto è l’ipocrisia! Non credo infatti che tu e l’organizzazione politica che in qualche modo rappresenti abbiate le carte in regola per parlare di democrazia, libertà e rispetto dei diritti umani.
Mi aspettavo almeno un accenno a e/o un chiarimento sull’esempio che ti ho fatto relativamente ai MILIONI di morti e profughi causati da due guerre (di cui l’ultima, iniziata nel 2003, che possiamo considerare ancora in corso) e un embargo in Iraq (chiediamoci: che posizione assunsero e continuano ad assumere la sinistra giovanile e i DS in queste occasioni?). Come fare poi a dimenticare l’illegale (dal punto di vista del diritto internazionale l’azione armata è giustificabile solo in caso di risposta ad un attacco armato, cioè a dire per legittima difesa) e assassina guerra della NATO contro la Jugoslavia di Milosevic imbottita tra l’altro di armi chimiche che continuano ad avvelenare le acque e la popolazione di questo paese dimenticato? Non possiamo perdonare chi ha partecipato e guidato uno genocidio di questa entità, che continua a mietere vittime. Era il vicino ‘99 e il governo italiano, che partecipò entusiasta alla missione, era guidato da Massimo D’Alema (DS). Quanto segue è un’estrema sintesi di questo crimine compiuto con la complicità e l’aiuto diretto del nostro paese, guidato per l’appunto dal partito per cui militi:
Il 24 marzo 1999 ebbe inizio l’aggressione della Nato alla Repubblica Federale Jugoslava: 78 giorni di bombardamenti, condotti da cacciabombardieri Nato e italiani, anche sulle infrastrutture civili del territorio della Serbia e Montenegro. Giustificata come “umanitaria”, fu una guerra che oggi si vuole - per vergogna? Per coprirne gli orrori? - rimuovere. Essa aveva l’obbiettivo ufficiale “di portare in quella provincia jugoslava la multietnicità, la multireligiosità e un sistema democratico in grado di impedire pulizie etniche contro i kosovari albanesi; fermare le violenze, garantire sviluppo, pace e tolleranza”. Buoni propositi, come per ogni guerra imperialista, visto che il prodotto finale di quella guerra è stato quello di versare più sangue, seminare più divisioni, più odio e molta più miseria sociale.
Dopo otto anni, e 30.0000 militari Onu e Kfor avvicendatisi, secondo le varie fonti Onu, Osce, Kfor, Unmik, niente di tutto quello promesso è stato mantenuto o raggiunto. Il Kosovo M., oggi, è solo una drammatica realtà, il prodotto unico delle violazioni del diritto internazionale. Dati inquietanti rappresentano il fallimento di una missione che tutto ha generato tranne la pace, che ha devastato terra e uomini con i proiettili all’uranio impoverito, compromettendo per lungo tempo la vita di un popolo e lo sviluppo sociale. Neanche i luoghi generalmente considerati sacri sono stati risparmiati: 148 tra chiese e monasteri ortodossi sono stati distrutti.
Il quadro economico evidenzia maggiormente quanto la guerra abbia pesantemente influito sul futuro del Paese. Si registra l’80% di disoccupazione; le attività produttive sono completamente distrutte e l’agricoltura si è ridotta del 60%. Diritti sociali, civili, religiosi, politici: nessuno di questi è oggi praticabile o garantito. La popolazione non albanese vive in “enclavi”, aree circoscritte, in regime d’apartheid. (Fosco Giannini, Don Andrea Gallo, Enrico Vigna; L’indipendenza del Kosovo di Bush e perché dobbiamo opporci su Liberazione del 27/07/2007 )
Come vediamo da questo esempio salta subito all’occhio quanto sia ipocrita l’atteggiamento di chi, come te, si riempie la bocca di belle parole a favore della rivolta in Myanmar - ribattezzato colonialisticamente Birmania.
Quando dici che “al di là delle grandi valutazioni geopolitiche (che pure hanno un loro senso, per carità)”- eludendo così per scelta metodologica una visione (che almeno cerchi di essere) completa - non si può “non riconoscere il valore e il senso di una battaglia democratica” e concludi “i soldati che sparano sui cortei di protesta sono sempre esecrabili” commetti un grave errore. Pensa, anche questa volta solo a mero titolo esemplificativo, a questo dato: “Israele è il massimo fornitore di armi pesanti e leggere al Myanmar!” Ma come puoi condannare le sparatorie sulla folla e non chi lucra sulle vittime da essa provocate!? (Ma immagino che la legge del profitto che costituisce il DNA del capitalismo sia per te sacra e perciò intoccabile: quindi viva l’industria bellica che rende noi italiani i sesti esportatori di armi al mondo, le quali poi ovviamente, come ogni altra merce, devono essere usate, consumate e riacquistate: quindi viva anche l‘uso delle armi se aiuta l‘economia, viva l‘aumento delle spese militari in finanziaria! ecc. ecc.). In verità sappiamo bene quale considerazione nutrano i tuoi politici e intellettuali di riferimento nei confronti di quel “democratico” paese che da sessant’anni opprime il popolo palestinese (come non accennare qui all‘aforisma di Lenin secondo cui non può essere libero e democratico un popolo che ne opprime un altro…). Difatti:
“Si tuona sul migliaio di presunti arrestati in Myanmar. Non si parla dei 60mila civili e partigiani palestinesi dall’inizio dell’Intifada - sempre sia lodata - sequestrati, detenuti senza processo, torturati, di cui 11.500 tuttora in carcere. Non si parla dei 60mila - per difetto - prigionieri iracheni nelle carceri della tortura di Usa e fantocci. In entrambi i paesi sono migliaia i bambini.[…] C’è uno stato [Israele] che sbraita per prendere alla gola subito tutto il Myanmar e che ha il primato mondiale degli infanticidi: non c’è settimana che passa che a Gaza non venga ucciso qualcuno sotto i 14 anni e nelle carceri dell’orrore iracheno, il 14% sono minori. Servono a ricattare i padri latitanti” (Depleted uranium anche per Myanmar? di Fulvio Grimaldi su http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=3814)
Ciò non ostante il governo italiano, anche se guidato dal centro-“sinistra”, non ci pensa proprio a stracciare quel patto di alleanza politica-militare conclusa dal governo Berlusconi con Israele (il quale accordo rende tra l‘altro del tutto parziale la partecipazione italiana alla missione imperialistica dell’ UNIFIL). Alla faccia del monito: “Disciplina, altrimenti torna Berlusconi!” Non c’è dubbio: è lo stesso leitmotiv che serve solo a metterla in quel posto ai lavoratori convincendoli della bontà di un accordo (quello del 23 Luglio scorso) che riesce solo a peggiorare il già esecrabile scalone Maroni innalzando ulteriormente, dal 2013, l’età pensionabile dei lavoratori e confermando sostanzialmente la legge 30. Tutto questo quando, in mezzo ad un pecoreccio teatrino eruttante di falsità borghesi volte a privatizzare la previdenza, davvero in pochi hanno avuto l’onestà di mostrare come fossero perfettamente a posto e addirittura in attivo i conti dell’INPS (vedi L. Gallino, F. Giannini, G. L. Pegolo, G. Cremaschi e pochi altri). Voglio dire che sull’altare del ritorno delle destre e, per quel che riguarda la cosiddetta sinistra radicale, della “cosa rossa” si sta procedendo all’abbattimento e alla privatizzazione di quei residui di stato sociale che sono costati decenni di lotta…ma questa è un’altra storia.


* * *

Veniamo ora alla Cina. Scrivi che essa:
“notoriamente, non è nè una democrazia, nè un paese socialista, ma un regime autoritario turbocapitalista in cui i lavoratori sono sfruttati quanto basta e che quanto a vocazione imperialista gareggia allegramente con gli USA da almeno trent’anni… e non certo per il benessere delle masse sfruttate del pianeta!”
Anche in questo caso le tue parole, pedissequamente alla coda dell’ideologia dominante, abbondano di falsità e banalità. L’avverbio “notoriamente” non può non richiamarci alla mente un bel detto di Hegel: “Ciò che è noto, proprio perché è noto, non è conosciuto. Nel processo della conoscenza, il modo più comune di ingannare sé e gli altri è di presupporre qualcosa come noto e di accettarlo come tale” (Hegel, cit in Domenico Losurdo, Controstoria del Liberalismo, editori Laterza, 2005).
Non mi dilungo qui sul concetto di democrazia né su quello di socialismo. Nel primo caso pensiamo però ad esempio al fatto che oggi, nell’immaginario collettivo così plasmato dall’ideologia dominante (cioè a dire: “notoriamente”), si ritengono gli Usa i detentori della democrazia in quanto tale, dove invece può capitare, grazie al peggiore sistema elettorale del mondo (fortemente antidemocratico!), che tra i due canditati in lizza per la Presidenza del paese venga eletto, come è accaduto l’ultima volta nel 2000 tra W. Bush e Al Gore, quello che ha ottenuto meno voti popolari rispetto al suo concorrente (sic!) - per chi volesse approfondire questa questione mi permetto di rimandare al mio saggio: Usa. Quale democrazia? pubblicato su http//www.lamacchinamondiale.blogspot.com ; link: la macchina mondiale n° 3.
Io penso che si debba invece parlare, a proposito della Cina - e del Vietnam - di socialismo di mercato, per quanto non si possa ancora dire con certezza (nessun buon comunista può essere tale se crede di possedere l’arte della veggenza!) quale sarà l‘esito di questo “esperimento” gigantesco. Ma, fortunatamente, quanto sta accadendo mi rende relativamente ottimista. Si può infatti osservare come - e scongiuriamo il rischio di vedere solo i singoli alberi non accorgendoci di non vedere l’intera foresta! - questa enorme crescita economica del gigante asiatico costituisca la più grande riduzione della povertà della storia, dal momento che in esso risiede un quarto della popolazione mondiale, e poiché la ricchezza prodotta, sia pure tra mille difficoltà e contraddizioni (quali l’aumentare delle disuguaglianze sociali) di cui è ben conscio pure il PCC, si è in qualche modo distribuita via via anche verso le fasce più basse della popolazione, innalzandone in questo modo il tenore di vita - mi permetto anche qui di rimandare alla seconda parte del mio saggio Note sul Vietnam pubblicato sul succitato sito dei GC di Urbino; link: la macchina mondiale n° 2.
Ma procediamo, per quanto è possibile, con un minimo di ordine. Affermare brutalmente che la Cina è un “regime autoritario turbocapitalista in cui i lavoratori sono sfruttati quanto basta” è un’altra fandonia degna della dilagante ideologia del “pericolo giallo” che riesce addirittura nel compito di rovesciare la realtà. Pensiamo solo a questo fatto: “il 57% delle merci che la Cina esporta è prodotto da multinazionali che si sono insediate in Cina, ma non sono cinesi” (F. Bernabè, cit. in B. Casati; La Cina è lontana, su gramsci oggi n.1/2007 - www.gramscioggi.org). Domandiamolo quindi ai nostri industriali che delocalizzano a tutto spiano
“il rispetto della “clausola sociale”, visto che questi emigranti italiani, che si sono rigenerati nell’antico Regno di Mezzo proprio per liberarsi del conflitto in patria, sono oggi anche i capofila della lobby internazionale che impedisce, lo rivela l’autorevole New York Times, che nelle loro fabbriche cinesi entri quel sindacato (che non è certo la Fiom)”. (ibidem).
E, domandiamo il rispetto dei diritti dei lavoratori italiani sfruttati (ricordo tra l’altro che ne muoiono in media tre al giorno!) anche al nostro Governo. Quest’ultimo potrebbe almeno emanare una legge che dicesse:
“‘tu imprenditore te ne vuoi andare a Shangai o Timisoara a fare bulloni o telai di biciclette? Vacci, ma sull’area dello stabilimento italiano che dismetti non ci speculi, ti è espropriata dal Comune e, inoltre, gli ammortizzatori sociali, per i lavoratori che mandi a spasso, li paghi tutti tu’. Troppo di sinistra? Niente affatto, ancora nelle vicine Francia e Germania si fa così” (B. Casati, Consorziare le formiche per contrastare le locuste, su gramsci oggi n. 4 Luglio 2007)
In un certo qual modo anche in Cina si fa così. Ma è difficile avanzare un tale paragone dal momento che, a differenza della Germania e della Francia la borghesia cinese (come chiamarla?) è di un tipo “nuovo”: non possiede i mezzi di produzione e non detiene il potere politico. A tal riguardo mi permetto di aprire una piccola ma interessante parentesi, dando la parola a Domenico Losurdo:
“Coloro che si accodano alla crociata anticinese in nome di Mao Zedong farebbero bene a riflettere su un fatto: a cinque anni dalla conquista del potere, il grande dirigente rivoluzionario constatava, senza gridare allo scandalo, la permanenza nell’immenso paese non solo del capitalismo ma anche del «regime dei proprietari di schiavi» (il riferimento è al Tibet) e di «quello dei proprietari feudali». E per quanto riguarda le sacche di miseria e di disoccupazione in ripugnante contrasto con l’opulenza dei nuovi ricchi, conviene rileggere una straordinaria pagina nel 1926 da Gramsci dedicata all’analisi dell’URSS e di un fenomeno «mai visto nella storia»: una classe politicamente «dominante» viene «nel suo complesso» a trovarsi «in condizioni di vita inferiori a determinati elementi e strati della classe dominata e soggetta». Le masse popolari che continuano a soffrire una vita di stenti sono disorientate dallo spettacolo del «nepman impellicciato e che ha a sua disposizione tutti i beni della terra»; e, tuttavia, ciò non deve costituire motivo di scandalo o di ripulsa, in quanto il proletariato, come non può conquistare il potere, così non può neppure mantenerlo se non è capace di sacrificare interessi particolari e immediati agli «interessi generali e permanenti della classe»”. (D. Losurdo; Fuga dalla Storia? Il movimento comunista tra autocritica e autofobia; cap. VI ; La città del Sole, Napoli, marzo 1999)
Torniamo a noi. Cosa intendevo dire che anche in Cina si frenano gli “effetti collaterali” della delocalizzaizone? È sempre Bruno Casati, fresco di un recente viaggio in Cina, a vedere con i suoi occhi che, venuto a conoscenza del licenziamento di 1.500 operai di una grande tintoria di Shanghai,
“c’è una indennità “alimentare” di buona uscita ma negoziata singolarmente con i lavoratori (del Sindacato, almeno in Shantex, non ho percepito presenza) e, la ricollocazione in altri lavori, a Shanghai è pressoché immediata. Se un problema, perlomeno qui, non c’è è proprio quello del lavoro. Non sarà la tanto decantata Flexsecurity danese, ma ci assomiglia. Se non altro però la Cina si sta dotando di una legislazione del lavoro che la Danimarca, esempio che vorremmo copiare in Italia, non si propone affatto di sostenere” (Bruno Casati; Breve viaggio nel lavoro e nell’economia della Cina costiera. Impressioni e riflessioni; su http://www.resistenze.org/sito/te/po/ci/poci7i29-002025.htm)
Non c’è dubbio: la Cina in alcune materie è già più avanti di o al passo con gli stati capitalistici occidentali più sviluppati - sempre più impegnati a sgretolare gli ultimi residui di stato sociale che “ostacolano” il libero accumulo (illimitato) dei profitti da parte delle borghesie al potere avide di quattrini e che, impaurite dalla crescita della Cina (e non solo della Cina), non possono non rispondere se non con ciò che li rende ancora i padroni indiscussi del pianeta: la guerra. E in altre questioni preannuncia miglioramenti considerevoli: “a Gennaio infatti andrà in vigore la ‘riforma del lavoro’. Una specie di statuto dei lavoratori che si muoverà nella direzione […] sia del lavoro a tempo indeterminato, sia del ruolo di un Sindacato” (ibidem) . Ricordiamo infatti che il fine del PCC non è certo il “turbocapitalismo” ma, come in un certo qual modo seppero fare Lenin e i bolscevichi con la NEP (che venne poi sciaguratamente abbandonata), la distribuzione della ricchezza presso tutta la popolazione, tramite le temporanea introduzione di forme di capitalismo volte a sviluppare le forze produttive del paese. Il tutto all’insegna della transizione a forme più avanzate di socialismo. Cioè a dire:
“la Cina cerca di sviluppare le ‘industrie nuove’, che non hanno più una base nazionale e la cui ‘introduzione’ [sottolinea K. Marx] è ’una questione di vita e di morte per tutte le nazioni civili’” (D. Losurdo; Dinnanzi al processo di globalizzazione: marxismo o populismo?; su L’ERNESTO 1/2002)
In conclusione, esaminiamo altri dati, della Banca Mondiale, che non fanno altro che confermare quanto stiamo sostenendo:
“- Oggi, della popolazione cinese (il totale è di un miliardo e trecento milioni di persone, 20 volte quella italiana) quanti hanno un reddito pro capite inferiore ad un dollaro al giorno che nell’81 erano seicento milioni di persone, si sono ridotti nel 2001 a 212 milioni (tre volte meno), con un dato, in consolidamento sul 2006, che ci parla oggi di 100 milioni di poveri. Resta tuttora il gap di ricchezza tra città e campagna, tra Est ed Ovest, tra chi ha e chi non ha, ma c’è netto il senso di marcia.
- Secondo dato: il salario medio cinese, dal 90 ad oggi, è aumentato dell’8%, mentre del 4% sono aumentati i cosidetti “redditi rurali”. Certo, il salario cinese non è assolutamente comparabile con quello italiano – il costo orario del lavoro nella Cina costiera è di 0,6 dollari l’ora (in India è di 0,4) mentre in Italia è di 14, chi delocalizza lo fa per questa ragione – ma non è comparabile nemmeno il costo della vita. Sarà una marcia lenta ma la direzione verso un welfare cinese è indicata e praticata.” ( B. Casati; La Cina è lontana; su gramsci oggi n.1/2007)
E confrontiamoli con questi dati relativi al nostro paese:
“a fronte di un ultimo quindicennio che ha visto i più alti picchi di profitto della storia della Repubblica, i salari italiani sono divenuti tra i più bassi d’Europa; l’area della povertà si è estesa ad oltre sette milioni di persone; il lavoro precario rappresenta ormai oltre il 30% dell’intero mondo del lavoro; la disoccupazione giovanile giunge al 40% circa; il gap tra il nord e il sud d’Italia si è ulteriormente divaricato; il prelievo fiscale, diretto e indiretto, dalle buste paga dei lavoratori rappresenta circa un quarto dell’intero salario, mentre tra le 769.386 grandi imprese italiane solo il 5% denuncia al fisco un guadagno annuo superiore ai 100 mila euro. Il 67% (i due terzi) denuncia un guadagno inferiore ai 10 mila euro e di queste la maggioranza (dunque, il 50% del totale) denuncia guadagno zero o dichiara una perdita. Fiat, Ferrari, Trenitalia, General Motors Italia, Whirlpool, Arena, Candy, Conad, Cisalfa, Hewlett Packard sono tra queste ‘disgraziate’ aziende…Tutto ciò mentre - sono dati Fmi - in Italia si assiste a un trasferimento ingente di ricchezza dai lavoratori al capitale, che ha invalidato tutti i miglioramenti salariali ottenuti dal ‘45 agli anni ‘80 [non a caso da quando inizia la crisi dell’URSS e i primi vagiti del suo dissolvimento] e che si configura come una sorta di ‘distribuzione a rovescio’: il reddito da lavoro si è concentrato negli stipendi dei già ricchi - manager, dirigenti, ecc…-, a danno dei salariati meno abbienti.” (F. Giannini; Comunisti oggi: la fase che viviamo; su L’ERNESTO del 1/2007).
Il quadro che emerge dal confronto della situazione italiana con quella cinese è davvero emblematico e non necessita di chiarimenti: si descrive da sé. Come non notare infatti, da una parte la progressiva e veloce evoluzione di un paese, quale è la Cina, impegnato ad uscire dal sottosviluppo e nel contempo a combattere le disuguaglianze sociali prodotte da questa scelta (necessaria, come abbiamo visto sottolineare dallo stesso Marx) e, dall’altra l’involuzione socio-economica e l’allargamento della forbice sociale nel nostro paese?
Non ci resta ora che analizzare, cercando,questa volta, di essere estremamente breve, il concetto di imperialismo. Non so davvero come tu faccia a dire che, da questo punto di vista, la Cina sia da mettere sullo stesso piano degli Usa. Evidentemente attribuiamo un significato diametralmente opposto a questo concetto.
Ancora oggi credo che sia quella di Lenin la definizione migliore di imperialismo, cui dedica un intero opuscolo, in cui il grande rivoluzionario comunista elenca a un certo punto cinque “contrassegni” che caratterizzano l’imperialismo e che ben si prestano a sintetizzare il contenuto del suo scritto:
“1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo ‘capitale finanziario’, di un’oligarchia finanziaria;
3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche” (V. I. Lenin, L’imperialismo, p.128, Editori Riuniti 1970)
Della Cina tutto si può dire tranne che presenti questi cinque “contrassegni” - diverso invece il discorso per gli odierni stati imperialistici che ne sono infatti ancora fortemente caratterizzati.
Ad esempio, relativamente al primo punto la Cina, non produce monopoli, cioè a dire quelle che oggi chiamiamo multinazionali, ma ha semmai aperto le porte a quelli stranieri. Così come, analizzando il secondo punto, a differenza di quanto avviene in paesi come il nostro, le banche cinesi sono tutte pubbliche: “‘banche pubbliche per sempre’, così il Primo Ministro Wen Jiabao chiudendo la sessione 2006 dell’Assemblea Nazionale del Popolo (B. Casati; La Cina è lontana; su gramsci oggi n.1/2007). Per quanto concerne il terzo “contrassegno” relativo al dilagare dell’ “economia di carta” e delle “speculazioni borsistiche, che si mangiano l’economia reale” (Fausto Sorini; Le ragioni di una tesi alternativa sull’imperialismo (tesi 14-15);su L'ERNESTO del 20/01/2002) direi che questo è proprio il caso dei paesi come il nostro (ad esempio, abbiamo visto come specula sulle delocalizzaizoni) e non certo quello della Cina la cui avanzata socio-economica si fonda proprio sulla produzione, importazione ed esportazione di merci vere e proprie. Infine, analizzando anche gli ultimi due “contrassegni” indicatici da Lenin e mostrando come la Cina intrattenga rapporti con gli altri paesi in difficoltà tutt’altro paragonabili con gli stati imperialistici, si sappia che:
“Oggi la Cina importa dagli altri paesi asiatici per 254 miliardi di dollari l’anno (dato 2004), con un aumento del 35% sul 2003, e ha aumentato dell’87% le sue importazioni dall’Africa e del 77% quelle dal Sud America. Che vuole dire? Vuol semplicemente dire che, mentre i paesi capitalistici scaricano debiti e problemi su Africa, Sud America ed Asia (gli Usa poi vi scaricano anche qualche tonnellata di bombe), la Cina stabilisce proficui rapporti commerciali con gli stessi paesi, che così possono pensare di sganciarsi dalla morsa economica, che poi è servitù politica e militare, degli Usa e dell’Europa. Questo, della Cina che diventa il paese di riferimento economico per paesi poveri e in via di sviluppo,è il vero “pericolo giallo”, ma lo è per gli imperialisti, mentre la critica fatta dagli stessi sulle importazioni, di jeans e mutande, è fasulla: è esercitata solo per sollecitare riflessi emotivi, reazioni di rigetto, paure che occultino la preoccupazione reale (e fondata) del Capitale che perde colpi.” (B. Casati, La Cina è lontana, su gramsci oggi n.1/2007).
Altro che ripartizione del mondo! A trarre beneficio dalla crescita economica del gigante asiatico non è solo il popolo cinese ma anche le altre masse sfruttate del pianeta (dunque le cose stanno proprio all’opposto di quanto affermi)!
A dimostrazione invece di quanto sia ipocrita il tuo atteggiamento e decisamente pervaso dalla logica dei due pesi e due misure - alias morti di serie A (pochi) e morti di serie B (molti) - è davvero emblematico rivelare come anche a proposito della repressione del 1989 a Tian ‘An Men ometti un fatto non di poco conto; non voglio qui soffermarmici troppo e ribadire quanto ho affermato nella mia risposta precedente e cioè che il sostegno a rivolte di questo tipo e a un eventuale Eltsin cinese equivarrebbe a rendersi complici di una drastica involuzione delle condizioni di vita di un quarto della popolazione mondiale (a cui, come abbiamo appena visto, dovremmo anche aggiungere i popoli del Terzo Mondo che traggono ingenti vantaggi dallo sviluppo economico cinese!). Vorrei invece far notare, en passant, che in quell’anno
“c’è stata anche, promossa dall’allora presidente Bush, l’invasione di Panama, preceduta da intensi bombardamenti, scatenati senza dichiarazione di guerra e senza preavviso: quartieri densamente popolati vengono sorpresi nella notte dalle bombe e dalle fiamme. Centinaia, più probabilmente migliaia sono i morti, in grandissima parte ‘civili, poveri e di pelle scura’; almeno 15 mila sono i senza tetto: si tratta dell’“episodio più sanguinoso” nella storia del piccolo paese” (Domenico Losurdo; La democrazia coma valore universale; su L'ERNESTO 6/2000)
Ciò non ostante, il 1989 è ricordato pressoché unanimemente (tu ne sei la prova perfetta) come l’anno della repressione di piazza Tian ‘An Men e non già come l’anno dell’invasione e del pesante bombardamento di Panama.
Passando ora ad accennare ad un altro luogo comune, devo dire che è decisamente singolare osservare come tu non abbia fatto nessun riferimento alla “Cina altamente inquinante e poco rispettosa dell’ambiente”, secondo quell’infondato e ingiusto leitmotiv in voga da anni e tanto sbandierato dagli ideologi della guerra alle cui argomentazioni non fai che prostrarti. Comunque basti qui ricordare che, ad esempio, un cittadino medio statunitense inquina il quadruplo di un cittadino medio cinese. Di più: la Cina , in termini di sviluppo, sta facendo nel giro di pochi decenni quello che gli stati capitalistici oggi avanzati hanno raggiunto dopo un lento e travagliato periodo di più di due secoli (inquinando, sfruttando e spesso riducendo in schiavitù interi popoli considerati come razze inferiori!). Inoltre il PCC è ben conscio degli effetti indesiderati, in termini di salute ambientale, che il suo sviluppo inevitabilmente produce ed è già corso ai ripari: già a partire dal 2005 la Cina ha dimostrato di essere il paese al mondo che investe di più nelle energie rinnovabili (quando ad esempio l’Italia, in questo settore, è l’ultimo paese d’Europa!). Consiglio a tal proposito la seguente lettura che mostra più nel dettaglio in cosa consistono questi investimenti:
http://newton.corriere.it/PrimoPiano/News/2007/01_Gennaio/15/cina_eolico.shtml
Interessante anche sapere che esiste una città cinese che si chiama Rizhao, che va interamente a energia solare:
http://www.ansa.it/ambiente/notizie/notiziari/inquinamento/20070723122534379875.html
Insomma: spesso le cose stanno davvero diversamente da come ce le propugna l’ideologia dominante e i suoi lacché. E spero, ovviamente nel mio piccolo, di essere almeno riuscito a far breccia nel solido muro eretto dall’ideologia borghese e da coloro che si credono - e fanno credere di essere - i detentori della torcia della ragione.
Voglio concludere questo mio contributo con le parole di un grande rivoluzionario comunista ancora vivente: “Per tutti quelli che, come noi, credono nel socialismo, quello che la Cina sta facendo rappresenta una speranza. Non è azzardato affermare che il futuro del socialismo nei prossimi decenni dipenderà in larga misura da quello che la Cina saprà realizzare”. (Messaggio di Fidel Castro per il 50º della fondazione della Repubblica Popolare Cinese)






Figura della donna e concezione estetica in Svevo e D'Annunzio: differenze e affinità




di Emiliano Alessandroni




Il modo con cui Gabriele D'Annunzio concepisce la donna nei suoi romanzi è strettamente correlato alla sua visione del mondo e di intendere la vita. Il superomismo, la volontà di potenza, l'influenza di Nietzsche, e la concezione elitista dell'esistente, giocano, che se ne voglia o meno, un ruolo fondamentale. Tutto il pensiero di D'Annunzio è costellato da un'avversione per il nuovo mondo che si va delineando e da una nostalgia costante per un'età ormai tramontata che lo conduce a rintanarsi nel mondo dell'arte poetica e prosaica, concepito come unico rifugio contro la "goffaggine insolente" della borghesia in ascesa. Il suo radicalismo aristocratico costituisce la chiave di lettura per comprendere il suo atteggiamento tanto verso l'arte quanto verso la donna in genere: «l'invettiva contro il suffragio universale e l'egualitarismo democratico si coniugano con lo sconforto per i tempi nemici dell'arte e della letteratura».1
L'influenza e la linea di continuità rispetto a Nietzsche sono alquanto evidenti: in effetti in Nietzsche la tematica della bellezza occupa una posizione importante della sua filosofia. La bellezza e l’arte sono ciò che portano per lui il vero innalzamento dell’uomo. E tuttavia come deve essere perseguito questo ideale estetico che eleva l’uomo sublimandolo a spirito libero? È necessario notare che per Nietzsche l’innalzamento umano va di pari passo con la schiavitù e, anzi, quest’ultima finisce per configurarsi come la vera conditio sine qua non per qualsiasi tipo di progresso:
Meditiamo sulla necessità di nuovi ordinamenti, persino di una nuova schiavitù – perché ad ogni rafforzamento e innalzamento del tipo “uomo” è strettamente connesso un nuovo genere di schiavismo2
Dunque per Nietzsche «la schiavitù rientra nell’essenza di una civiltà»3, in perfetta linea sintonica con il proprio «radicalismo aristocratico».4 Ma qual è il nesso logico tra l’apologia e l’esaltazione dello schiavismo e il perseguimento della bellezza e dell’arte come sublimazione della vita? Il nesso c’è ed è anche piuttosto stretto, tanto che si può affermare fin da subito che solamente la riduzione in catene di centinaia di migliaia di uomini, «l’annientamento delle razze decadenti»5 e di «milioni di malriusciti»6 può permettere il reale conseguimento della bellezza.
Per Nietzsche del resto sono l’otium e la noia i luoghi più fertili dove la vera arte trova le condizioni più idonee per sbocciare. L’ozio, il dolce far niente, il solo occuparsi di avventure amorose e scampagnate a cavallo, sono i costituenti vitali per la produzione artistica. È evidente che tale descrizione presuppone un’immane massa di uomini che ben lungi dall’interessarsi all’ideale estetico devono occuparsi della produzione delle risorse materiali della data società, senza le quali gli stessi artisti non avrebbero di che sopravvivere.
La visione dell’arte e della bellezza di Nietzsche è dunque decisamente elitaria. Il reali motori della storia non sono le masse ma i pochi geni ai quali va subordinata la stragrande maggioranza della popolazione. La schiavitù va dunque perseguita con lo scopo di far nascere questi geni, ossia «la sventura di uomini che vivono di fatiche e di stenti va ancora aumentata, per rendere possibile a un ristretto numero di uomini olimpici la produzione del mondo dell’arte».7 Chi si oppone a ciò, ovvero tutta quella «canaglia»8 plebea formata da rivoluzionari e socialisti, queste «mosche velenose»9, che avvelenano l’esistenza altrui in nome di un egualitarismo decantato solo per nascondere la loro invidia, va riconosciuto come un «malriuscito» e annientato senza pietà alcuna.
È evidente insomma, che se per Nietzsche il brutto e il disarmonico costituiscono anch'essi un gioco artistico, di essi «è parte integrante la schiavitù, il sacrificio di massa che si consuma sull'altare della produzione del genio e dell'arte. In questo senso, "solo come fenomeno estetico l'esistenza e il mondo appaiono giustificati"».10 Come che sia in tale autore «riflessione estetica e riflessione politica sono così strettamente intrecciate da risultare inscindibili».11
Non diversa appare essere la concezione estetica dannunziana. In perfetta linea di continuità rispetto al filosofo tedesco, anche per D'Annunzio il mondo non è altro che «la rappresentazione della sensibilità e del pensiero di pochi uomini superiori, i quali lo hanno creato e quindi ampliato e ornato nel corso del tempo e andranno sempre più ampliandolo e ornandolo nel futuro. Il mondo quale oggi appare, è un dono magnifico largito dai pochi ai molti, dai liberi agli schiavi: da coloro che pensano e sentono a coloro che debbono lavorare».12
Anche per D'Annunzio l'arte è solo per gli eletti, per i geni, per i superuomini, da tale disciplina deve necessariamente rimanere estraneo il volgo barbaro, queste plebi arroganti, questi «schiavi ubriachi»13 il cui destino è quello di essere domati con «fruste sibilanti» o con qualche altro «allegro stratagemma» e ricondotti, come «il gregge» che sono, «all'obbedienza».14
Come in Nietzsche dunque, così in D'Annunzio riflessione estetica e posizione politica s'intrecciano inestricabilmente. D'Annunzio fu, da questo punto di vista, un autore totus politicus; egli come ci dice giustamente Petronio, non fu mai «un "poeta puro", anche quando cantava la divinità della parola e la sovrumanità del verso, ... perchè nel suo decadentismo estetizzante la Parola, la Poesia, il Verso, la Bellezza, li vedeva sempre strumenti di un'azione capace di incidere sulla realtà del mondo e di modificarlo».15
È all'interno di tale quadro che va collocata la figura della donna in D'Annunzio. Il superomismo è il punto di partenza dal quale prende avvio ogni relazione uomo-donna nelle varie opere: quelli che sono i «prototipi dell'angelo e del demone, presenti nella cultura femminista di fine secolo compaiono in D'Annunzio estremizzati da un gusto dell'eccesso, che li rende facilmente fruibili dalla letteratura di consumo»16. Non meno importante per comprendere la figura della donna è la sua concezione estetica: «l'eros, in quanto manifestazione di piacere e di vitalità» occupa «un'importanza centrale nella vita dell'esteta e del superuomo dannunziani. Nell'istinto sessuale si estrinseca la tendenza del personaggio all'autoaffermazione e al dominio».17 In effetti anche laddove essa viene celebrata e dipinta con toni seducenti e ammaglianti, la donna di D'Annunzio non si eleva mai a «fonte di vita, ma esprime il fascino che anche sul superuomo esercitano i fantasmi di distruzione». Vi è nelle opere dannunziane un senso libidinoso e superomistico che connesso «alla volontà di potenza», finisce per trovare nella donna «un ostacolo e un'alterità insuperabili».18
È ciò che troviamo in certo qual modo nel Piacere, ove l'immagine della donna viene sdoppiata tra le due figure femminili che stanno a personificare rispettivamente la seduzione carnale (Elena Muti) e la purezza spirituale (Maria Ferres); tali «immagini si sovrappongono nell'amplesso di Andrea Sperelli, esaltandone l'eccitazione della conquista. Quello di Andrea Sperelli è già un esempio dell'eros vissuto come eccesso e crudeltà che prelude alla lussuria aggressiva del superuomo».19
In D'Annunzio dunque la donna assume le sembianze della «donna fatale», della «Nemica». La donna di D'Annunzio «non assume mai una propria autonomia ... , ma disegna sulla scena del sesso il conflitto, tutto interno all'io maschile, tra volontà di affermazione e senso di impotenza: l'eroe, debole, oggettiva nella donna la sua forza perduta come una potenza a lui estranea e minacciosa che prende», per l'appunto, «le vesti della Nemica».20
In Italo Svevo il mutamento che subisce la figura della donna rispetto a D'Annunzio non è affatto radicale. Risulta anzi curioso vedere come due autori così tra loro contrapposti ed esprimenti due punti di vista così diversi (l'uno quello del radicalista aristocratico, l'altro quello del borghese insofferente per la propria società) finiscano per convergere, in realtà, su non pochi punti.
A costituire una linea di continuità tra i due autori è il loro atteggiamento di perpetua ostilità nei confronti dell'intera età moderna.
Secondo Gramsci «la diffusione della psicologia freudiana pare che dia come risultato la nascita di una letteratura tipo 700; al "selvaggio", in una forma moderna si sostituisce il tipo freudiano. La lotta contro l'ordine giuridico viene fatta attraverso l'analisi psicologica freudiana».21
In effetti, seppur, in una forma moderna radicalmente diversa da quella della letteratura settecentesca, anche in Svevo sembra esservi una riabilitazione di quel "mito del buon selvaggio" che presente già da Las Casas influenzerà attraverso l'elaborazione teorica di Rousseau gran parte della letteratura del periodo illuministico. I limiti di questa nuova letteratura freudiana (Proust, Svevo, Joyce ecc.) sono di fatto i limiti della riflessione di Freud. Si riperde il senso della determinatezza storica e riaffiora nuovamente il concetto di uomo in generale e l'idea metafisica dell'esistenza di un'essenza umana come un alcunché di statico, di immutabile e dato una volta per tutte. Il limite di Freud sta nel non rendersi conto che l'uomo che sta analizzando non è "l'uomo" in astratto, quanto bensì un tipo ben particolare di uomo che è quello della società borghese del suo tempo. In questo modo «Freud considera "eterna" la "lotta primordiale per l'esistenza" e crede quindi a un antagonismo "eterno" tra principio del piacere e principio della realtà. Il convincimento che una civiltà non repressiva sia impossibile, è una pietra angolare»22 di tutta la sua costruzione teorica. In altre parole, come mette bene in luce Marcuse, il padre della psicanalisi avrebbe scambiato «una determinata società con la società, cioè non ha dato sufficiente importanza agli assetti socio-politici che determinano l'organizzazione del lavoro e la distribuzione della ricchezza prodotta, e quindi non ha distinto fra dominio sociale ed esercizio razionale dell'autorità».23
Il medesimo limite è riscontrabile in Svevo ed è da tale limite che prendono corpo tutte le problematiche relative ai suoi personaggi. In Una vita ad esempio assistiamo alla «perdita del mandato sociale da parte dell'intellettuale; il protagonista, Alfonso Nitti, scrittore fallito, registra la propria emarginazione, la dissacrazione di ogni possibile funzione del suo umanesimo, la perdita della delega alla mediazione e alla elaborazione di valori».24
Vi è un'incapacità da parte di Svevo di intravedere la connessione tra il proprio disagio, l'irrazionalità reale e l'assetto sociale espresso dal proprio tempo storico con la conseguente necessità d'indirizzare le proprie energie verso il superamento di quest'assetto che di tanto sgomento è produttore. Viceversa, nelle pagine delle opere sveviane la vita risulta essere "inquinata alle radici" e pertanto «qualunque sforzo di procurarci la salute è vano»25 poiché la vita stessa è malattia.
Tale malattia si esprime nel conflitto freudiano che esiste tra "principio del piacere" e "principio della realtà". La donna di Svevo rappresenta quindi la prima polarità di tale conflitto: essa «incarna la dimensione naturale e materiale della vita, le pulsioni del desiderio da cui l'uomo borghese è irrimediabilmente scisso».26
Tutto Senilità ad esempio è attraversato dal «conflitto fra eros e convenzione borghese, fra vita e senilità, fra principio del piacere e principio di realtà». Il tentativo di Emilio è quello di incanalare il "principio del piacere" nel "principio della realtà": la forza dell'eros che egli avverte anche piuttosto intensamente, «vorrebbe viverla senza rischi, disciplinarla».27 Emilio «vuole un'avventura senza impegno, che non danneggi i suoi "doveri familiari" o il suo decoro dello status borghese. Vorrebbe ridurre la donna a un oggetto», egli «non concederà mai nulla a Angiolina, nemmeno l'accesso alla propria casa, tenuta rigorosamente separata dall'amante, ma esige da lei un impegno totale e unilaterale».
Ma tale tentativo di risolvere la contraddizione reale cercando di assorbire il principio del piacere nel principio della realtà si rivela del tutto fallimentare, e la contraddizione invece di sanarsi si acutizza fino all'esplosione.
Non diversa è la situazione ne La coscienza di Zeno, anche qui la figura della donna è ridotta a oggetto da adattare alle proprie pretese: Zeno, «più che una determinata persona cerca una moglie, un ruolo».28 E in tale ruolo, senza il carisma e la capacità di resistenza che aveva Angiolina in Senilità, vi ricade Augusta, piegata completamente al principio di realtà di Zeno. Ma l'Es freudiano riaffiora nuovamente e Cosini è costretto a ripiegare su Carla per placare la nuova contraddizione. E tuttavia, «finchè Carla accetta il ruolo di donna-oggetto il rapporto funziona; quando minaccia di superare i limiti, diventa allora un pericolo e Zeno mette subito in atto i meccanismi necessari per farsi lasciare. Da inetto qual è, non prende lui la decisione, fa in modo che la prenda Carla, presentandole come moglie Ada».29
Come in D'Annunzio anche in Svevo ritroviamo la figura della «donna fatale», anche se questa volta sotto le vesti della «popolana sensuale, volgare e corrotta, ma sempre portatrice della forza seduttiva e minacciosa dell'eros».30
Tale atteggiamento assunto nei confronti della donna è una conseguenza diretta del limite sveviano-freudiano di cui abbiamo or ora parlato: l'incapacità di comprendere la determinatezza storica di ogni "principio di realtà" lascia presupporre questo come immutabile, e tale immutabilità la si dà come un fatto assodato. La risoluzione della contraddizione perciò, non si dirigerà verso il tentativo di mutamento del "principio di realtà" in direzione di una più facile e possibile convivenza con il "principio del piacere", ma si cercherà di adattare quest'ultimo al primo intervenendo sulla volontà delle varie figure femminili. La possibilità di intervenire sul "principio di realtà" non viene, nè dai personaggi sveviani nè, a questo punto, da Svevo stesso, menomamente tenuta in considerazione. Che possa esservi, come afferma Marcuse, una distinzione tra repressione fondamentale, repressione addizionale, e principio di prestazione, rimane per Svevo un mistero dai sette sigilli. Donde la convinzione che la vita stessa è malattia.
Non è un caso che Svevo venne tanto stimato da un autore come Montale, il cui pessimismo intorno alla vita, non lascia praticamente sbocchi e, se non fosse per la riparazione in extremis in qualche "correlativo oggettivo", la sua poetica sfiorerebbe il nichilismo.
Rimanderei invece la problematica intorno all'esistenza ad un autore come Leopardi, che mi pare abbia saputo dipanare la questione meglio di tanti altri suoi successori, e per il conflitto tra natura e anti-natura alla lungimiranza di un Paolo Volponi; non è tuttavia questa la sede per approfondire tali argomenti.
E.A.




Bibliografia:




- Romano Luperini: "La scrittura e l'interpretazione" 1998 Edizione Rossa (vol. 3 tomo I )
- Romano Luperini: "La scrittura e l'interpretazione" 1998a Edizione Rossa (vol. 3 tomo II )
-Gabriele D'Annunzio: "Le vergini delle rocce" 1995 Mondadori
- Antonio Gramsci: "Quaderni dal carcere" 2001 Einaudi
- Herbert Marcuse: "Eros e civiltà" 1964 Einaudi
- Giuseppe Bedeschi: "La scuola di Francoforte" 1985 Laterza
- Franco Petroni: "L'inconscio e le strutture formali" 1979 Liviana
- Nietzsche: "Opere" 1980 Adelphi
- Nietzsche: "Ecce Homo" Adelphi 2004
- Nietzsche: "Così parlò Zaratrhustra" 2000 Bur
- Domenico Losurdo: "Nietzsche il ribelle aristocratico" Bollati Boringhieri 2004
- Giuseppe Petronio: "L'attività letteraria in Italia" Palumbo 1979
1 Niva Lorenzini, Introduzione a Le vergini delle rocce, in D'Annunzio, 1995, p. XIV
2 Nietzsche, La gaia scienza, in Nietzsche, 1980, p. 377
3 Nietzsche, Lo stato greco, in Nietzsche, 1980, p. 767
4 Nietzsche, 1980, p. 206 (Vol III)
5 Nietzsche, 1980, p. 69
6 Nietzsche, 1980, p. 75
7 Nietzsche, 1980, p. 767 cfr. n. 3
8 Nietzsche, 2004, p. 30
9 Nietzsche, 2000, p. 69
10 Losurdo, 2004, p. 65
11 Ivi.
12 D'Annunzio, 1995, p. 12
13 D'Annunzio, 1995, p. 29
14 D'Annunzio, 1995, p. 31
15 Petronio, 1979, p. 765
16 Luperini, 1998, p. 517
17 Ivi.
18 Ivi.
19 Ivi.
20 Ivi.
21 Gramsci, 2001, p. 26
22 Marcuse, 1964, p. 64
23 Bedeschi, 1985, pp. 150-151
24 Petroni, 1979, p. 35
25 Luperini, 1998a, p. 341
26 Luperini, 1998a, p. 356
27 Luperini, 1998a, p.297
28 Luperini, 1998a, p. 355
29 Luperini, 1998a, p.356
30 Luperini, 1998a, p. 355




Dante e la «cloaca
del sangue e della puzza»




di Nicola Serafini




…Entrando di soppiatto in un salotto, sorprendiamo due dotti gentiluomini intenti a conversare amabilmente…
GIACINTO. Orbene, se voi mi dite ciò, io non posso esimer lo intelletto vostro dal rammentar che «quando si dice l’uomo vivere, si dee intender l’uomo usare la ragione, che è sua speziale vita e atto de la sua più nobile parte. E però chi da la ragione si parte, e usa pur la parte sensitiva1, non vive uomo ma vive bestia»2.
ELEUTERO. Dite il vero, nobiluomo. Ma io non mi partiva da la ragione nel formular giudizio. Bensì converrete con me che la ricerca del vero procede pur spesso a la cieca, «sì come suole essere che l’uomo va cercando argento e fuor de la ‘ntenzione truova oro»3.
GIACINTO. A la cieca, non direi. Anche se mi fate rammentar un passo che ad hoc pare perfetto, e che non vi sarà di certo alieno: «come peregrino che va per una via per la quale mai non fue4, che ogni cosa che da lungi vede crede che sia l’albergo, e non trovando ciò essere, drizza la credenza a l’altra5, e così di casa in casa, tanto che a l’albergo viene; così l’anima nostra, incontanente6 che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra […]»7.
ELEUTERO. Parole sante, indubbio. [Mescendosi del vino negro, dimanda, dopo una pausa.] Rammentate il furor di San Pietro?
GIACINTO, prendendo il calice pòrtogli. Come dite?
ELEUTERO. Io pensava, vedendo le stille rubre e la spuma rampollar fuor del bicchiere giocosamente, a l’epifania di San Pietro, nello canto ventesimo-settimo dello Paradiso, se la ricordanza mia non è fallace.
GIACINTO. Lo rammento con gran diletto, e a mal mio grado, veggo che tutto è ancor come descritto in quel mirabil canto.
ELEUTERO. Pensate davvero che la corruttela sia sì diffusa?
GIACINTO. «In vesta di pastor lupi rapaci / si veggon di qua sù per tutti i paschi»8.
ELEUTERO. Forse esagerate. Vi sarà pur anco qualche «dignitosa coscienza e netta»9 nello mondo ecclesiastico, cui sia «picciol fallo amaro morso»10!
GIACINTO. Duro fatica a pensarlo, e l’Alighiero alli tempi suoi era ben dello mio avviso. Vi basti, caro amico, prestar viva attenzione al canto da voi stesso citato, in cui l’allegoria è ben pellucida; ma forse posso dirvi: «Aguzza, qui, lettor, ben li occhi al vero / ché’l velo è ora ben tanto sottile, / certo che’l trapassar dentro è leggero»11.
ELEUTERO. Mio dotto amico, io so quel canto. Vi dico solo che non tengo per vera l’imagine dell’avello di San Pietro, quindi dello papato, ridotto a «cloaca / del sangue e della puzza; onde’l perverso12 / che cadde di qua su, là giù si placa»13.
GIACINTO. Invece penso io che la simonia, lo nepotismo, la fellonia, e l’eresia tutta, la cupidigia pure, ogni turpitudine sia ivi ubiqua; come anche «le tre disposizion che ‘l ciel non vole, / incontenenza, malizia e la matta / bestialitate […]»14 e lo sommo Poeta non falla dicendo che lo demonio che dal Paradiso precipitò, si placa, ora come allora, nello cimitero di San Pietro, il quale dice: «Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, / il luogo mio, il luogo mio, che vaca»15, dove, sebbene il solio pontificio sia occupato materialmente, esso “vaca”, rimane comunque vacante, vuoto, nel giudizio divino, che è lo più importante. Lo ricordo delli primi pontefici, di coloro che palesarono col martirio la fede, è vivo in Dante. Il ricordo dello primo pontefice augusto, rende perspicua la viltà di quelli seguenti, in misura più o meno esecrabile, fino ai dì di oggigiorno. Lo Poeta non nomina, ma sarà agevole capire che discetta di Bonifacio VIII; pur di Giovanni XXIII e Clemente V, di cui dice li luoghi d’origine: «Del sangue nostro Caorsini16 e Guaschi17 / s’apparecchian di bere: o buon principio, / a che vil fine convien che tu caschi!»18. E solo per rammentarvi una ben minima parte, illustre ospite, poi che anche la divina Beatrice stigmatizza lo decadimento. Voi siete uomo infra i più savii, quindi non penso che durerete fatica a comprenderlo.
ELEUTERO. «Daròtti un corollario ancor per grazia / né credo che’l mio dir ti sia men caro / se oltre promission teco si spazia»19: pensate dunque che oggi ancor sieno «le chiavi […] signaculo in vessillo»20? Che lo papato aderga bandiere di guerra? Che sia addivenuto una potenza politica? O pur ancora ch’esso sia «nel diletto della carne involto»21?
GIACINTO. «Or se le mie parole non son fioche / e se la tua audienza è stata attenta, / se ciò ch’è detto a la mente revoche»22, la curiosità sarà già paga.
ELEUTERO. «Se io mi trascoloro, non ti maravigliar»23.
GIACINTO. Ben vi vedo trascolorar, ma non ve ne corrucciate, ché alla realtà dei fatti, con «l’oltracotata schiatta / che s’indraca»24 da secoli e secoli per bramosia di potere e pecunia, è ben normale. Or io non dico che fu tutta intiera una «compagnia malvagia e scempia»25, questo no, ma buona parte lo dico; e pavento che in futuro cambi solo la parvenza, ma l’essenza rimanga immutata.
ELEUTERO, dopo una breve pausa, centellinando il vino e sospirando. Proprio come il fantolino che muor per fame…or mi sfugge la superna terzina…
GIACINTO. «La cieca cupidigia che v’ammalia / simili fatti v’ha al fantolino / che muor per fame e caccia via la balia»26.
ELEUTERO, con giolito. Proprio quella era la fuggiasca!
GIACINTO. Non ostante il monito sublime, non ostante le invettive de «l’alto preconio che grida l’arcano»27, molti ancora furono e sono «in vesta di pastor lupi rapaci»28.
ELEUTERO, dopo aver a lungo taciuto. Ottimo questo vino!
GIACINTO. Son dello stesso avviso, davvero eccelso. [Dopo un breve silenzio.] Pure questi calici, davvero sublimi, manifattura laudabile! [Occhieggiandoli contro luce.] E pur il cristallo è fulgentissimo!
ELEUTERO. «Se’l Cancro avesse un tal cristallo, / l’inverno avrebbe un mese d’un sol dì»29
N.S.
1 [“si affida all’istinto, alla parte irrazionale”, ndc.]
2 Convivio, II, 7, 3-4.
3 Ibid. II, 12, 5.
4 [“una via ignota, in cui non passò mai prima”, ndc.]
5 [“pensa ogni volta che sia la casa successiva”, ndc.]
6 [“non appena”, ndc.]
7 Ibid. IV, 12, 14-18.
8 Par. XXVII, vv.55-56.
9 Purg. III v. 8.
10 Purg. III v. 9.
11 Purg. VIII, vv.19-21. [“il velo che separa il significato letterale da quello allegorico (il «vero»), è così sottile da poter essere agevolmente oltrepassato”, ndc.]
12 [Lucifero, ndc.]
13 Par. XXVII, vv.25-27.
14 Inf. XI, vv. 81 sgg.
15 Par. XXVII, vv.22-23.
16 [Giovanni XXIII, ndc.]
17 [Clemente V, ndc.]
18 Par. XXVII, vv.58-60.
19 Purg. XXVIII, vv.136-138.
20 Par. XXVII, vv.49-50. [“le chiavi (consegnate a Pietro da Cristo ) siano l’emblema di bandiera politica”, ndc.]
21 Purg. XI, v.8.
22 Par. XI, vv.133-135.
23 Par. XXVII, vv. 19-20.
24 Par. XVI, v.115.
25 Par. XVII, v.62.
26 Par. XXX, vv.139-141. [“il bambino che è affamato ma continua a cacciar la nutrice”, ergo: comportamento aberrante, ndc.]
27 Par. XXVI, v.44.
28 Par. XXVII, v.55.
29 Par. XXV, vv.101-102. [“se la costellazione del Cancro avesse una stella così fulgida, l’inverno avrebbe un mese di luce perenne, cioè un dì lungo un mese”: d’inverno quando tramonta il Cancro, sorge il Sole, e quando tramonta il Sole, sorge il Cancro, quindi se il Cancro avesse una luce simile (nel mese in cui si avvicenda col Sole) ci sarebbe sempre giorno, ndc.]






Modigliani Amedeo, bohèmien livornese Gli aspetti più “scomodi” del grande pittore e scultore




Troppo spesso si tende ad associare a Modigliani l'epiteto di “pittore maledetto” della Parigi d’inizio secolo. Sarà per la stretta assonanza Modì-maudit, o sarà perché le centinaia di leggende ed aneddoti sul suo conto, sono arrivate alle orecchie anche dei “non addetti” al mestiere, ossia di coloro che non hanno nemmeno mai visto una sua opera o letto qualcosa su di lui.
Biografi d’ogni epoca, compresa la figlia Jeanne autrice di “Modigliani senza leggenda” (Firenze, 1958), hanno cercato di spogliare “Modì” da queste leggende, di discernere quelle false, o di eliminarne le parti “romanzate”.
Io invece mi trovo discorde: queste storie, passate di bocca in bocca, che già allora da Montmartre a Montparnasse fomentavano la fama di “ubriacone” dell’artista, sono una parte integrante della sua fama; formano uno stretto connubio con i dati biografici ufficiali ed accertati.
È chiaro che disprezzo nella maniera più assoluta il generalizzare sostenendo che tutta la sua vita fu scandita solamente da alcol e “bravate” d’ogni genere, ma nel contempo non posso negare che ne furono una parte consistente.
Ovviamente, se lui viveva tranquillo, in disparte, per un mese o due, e poi una sera ad una festa ne combinava una delle sue, era quest’ultima che rimaneva impressa nella mente dei presenti e che poi veniva diffusa fra i café e gli ateliers parigini.
Con ciò non voglio certo affermare che fu una personalità tranquilla e riservata, tutt’altro, ma semplicemente che non si può fare “di tutta l’erba un fascio”.
Fra gli episodi più singolari, ricordo una festa di capodanno nella sua “baracca” (ovviamente non poteva permettersi nulla di più), in cui stava sulla porta con la tabacchiera in mano e metteva direttamente in bocca a tutti quelli che entravano una pallina d’hashish. Ad un certo punto della serata si decide di preparare un punch, ma date le pretese degli ospiti e dello stesso Amedeo, decisero di utilizzare come contenitore l’intera vasca da bagno! Quando l’ebbero riempita gli diedero fuoco per bruciare parte del contenuto alcolico, ma le fiamme divamparono fino al soffitto e i festoni si incendiarono! Dopo pochi minuti si spense da sé anche perché, a parte i disegni alle pareti, nella stanza non c’era praticamente niente.
Un altro episodio che permette di capire ancora meglio la controversa personalità del livornese: lui aveva l’abitudine di dipingere i suoi ritratti nella spaziosa e accogliente (di certo più dei suoi alloggi...) casa del suo mercante Zborowski; intorno a mezzogiorno sarebbe dovuto essere lì, ma non si fece vivo, così dopo una lunga attesa Zborowski, preoccupato, si recò nello studio di Amedeo, e lo trovò seduto sul letto a fissare stolidamente il muro davanti a sé. Alle domande del polacco Modigliani, turbato, rispose di non avere i colori per poter lavorare. Al che il mercante, stupito, replica di avergliene forniti diversi tubetti il giorno precedente e Amedeo, mestamente, dice di averli barattati la sera prima per qualche bicchiere di vino...
Il vino...Quando assieme a Maurice Utrillo, paesaggista ubriacone soprannominato “litrillo” (Picasso diceva che bastava sfiorarlo per ubriacarsi...), venivano buttati fuori dai café ubriachi fradici, Modigliani declamava Dante a memoria urlando per le vie di Parigi, attirando gli sguardi divertiti dei passanti, e Utrillo lo seguiva perdendo i vestiti per strada...
Numerose sono le storie, comiche a volte, tristi per la maggior parte, e, romanzate o meno, hanno contribuito alla creazione del “mito”; il “mito” che si è forgiato con le proprie mani, e che ben presto lo condusse al Père Lachaise.




di Nicola Serafini



*** *** *** APPENDICE




Sento, tutto ciò che vivo. Vedo ogni singola parola cadere in contraddizione, pieni di artifici e stupide menzogne rimiro il fallimento di un popolo troppe volte debole.
Accuso e giudico u mondo che io stesso alimento. Allora digrigno i denti e con tutta la rabbia che c’è in corpo desidero…
Vorrei un possibilità che fosse accessibile a tutti gli uomini di dignità; vorrei un caldo rifugio anche per gli antagonisti; vorrei si cancellasse l’ignoranza, si animasse un sentimento di rivalsa partire dal basso e crescere, impetuoso, dal valore quasi intangibile, dal corpo robusto, solenne…
Meraviglioso ciò che si crea con nobile intento; inefficace ciò che si attende senza combattere.
“Cantate bambini, insegnate ciò che sapete a chi ha perso immaginazione, imponete la vostra innocenza a tanti cuori che ormai corrotti dalla sete di potere hanno dimenticato quanto sia importante regalare un sorriso”.



Mattia Ambrogiani




Gli asini, Eschilo e i Marlene Kunz

Meglio vivere come gli eroi che come un asino davanti a due pagliai e che da lì non si muoverà mai.




Il motivo della scelta ha avuto nella storia dell’umanità, dalle sue origini ad oggi, sfumature di significato diverse che hanno contribuito profondamente a edificare nelle culture quel senso comune di giudizio (del bene e del male, del giusto e dello sbagliato) entro il quale gli uomini hanno, da sempre, nei vari tempi e nei vari luoghi, definito la propria identità.
È proprio a partire da questa riflessione sul concetto di scelta e il concetto di identità che si può stabilire una relazione direttamente proporzionale tra la facilità di prendere coscienza della propria identità e di fare una scelta.
Giacché bisogna essere prima di scegliere. Bisogna avere un gusto, una morale, o tutto al più un etica. Bisogna essere individuo, indivisibile. L’incoscienza o una coscienza infinita porta gli asini a non scegliere tra due pagliai e a farli rimanere fermi tra essi.
«Ora, l’operazione principale della tragedia è quella di spogliare la realtà da tutte le sue contraddizioni per averne una visione armoniosa ed essenziale.
Lo sforzo dell’opera tragica è indirizzato non tanto verso l’arricchimento della conoscenza e delle esperienze, quanto all’abbandono sempre più rigoroso dell’accessorio: era necessario, in ogni periodo tragico, ottenere dal mondo, e dare ad esso, una visione in primo luogo armoniosa, anche se non necessariamente serena, e cioè abbandonare volontariamente un certo numero di sfumature, curiosità, possibilità, per presentare l’enigma umano nella sua essenzialità.» (Nietzsche)
Per dirla con le parole di Roland Barthes: «La tragedia insegna più a spogliare che ad erigere». E l’enigma umano è quello che Amleto proporrà con le parole «essere o non essere?» o con le parole di un contemporaneo a Eschilo, Parmenide, che non lo considera proprio un enigma, magari più un ossimoro enigmatico, l’essere è, il non-essere non è. E forse l’enigma umano somiglia all’enigma che c’è nella testa dell’asino tra due pagliai. Ma gli uomini a differenza di questo ipotetico asino che resta immobile per tutta l’eternità, scelgono. L’eroico Amleto sceglierà il non essere per non avere più nè rimpianti nè colpe, per non dover più scegliere. E così facendo non raggiunge l’eroismo dell’asino che resta fermo. (Perché per non scegliere bisogna non essere in vita e la morte deve rimanere una soluzione inesistente e la storia deve essere inconcludente ed eterna. La via dell’essere è la via della persuasione.
Sempre tenendo a mente Parmenide che ci guida in questa analisi, archetipicamente parlando, ammetteremo in principio questi postulati: Dal niente non nasce niente. L’essere è eterno.
Ora, forti di questi riferimenti “esistenziali” saltiamo a piè pari nell’universo tragico di Eschilo dove la colpa di Oreste è causata dalla colpa di Clitemnestra e quella di Clitemnestra da quella di Agamennone e così all’infinito. Dove affermare che la colpa esiste significa affermare che è sempre esistita e che esisterà sempre. Dove presa la consapevolezza del fatto che tutto sia causato e che tutto causi a sua volta e che quindi nulla possa nascere dal nulla o scomparire nel nulla, l’eroe tragico sceglie, ammettendo la sua impossibilità di sottrarsi alla colpa e anzi trasfigurandola a una funzione contingente all’azione, che il teatro esige, che la vita esige.
I personaggi di Eschilo sono estremamente stilizzati, come grandi statue parlanti ancora ammantate della grandezza arcaica del mito, ciascuna chiusa nel suo mondo impenetrabile. Personaggi a una sola dimensione che si muovono in un mondo sovra determinato, che per quanto siano animati da una fortissima volontà di autoaffermazione si scontrano con una rete di forze invisibili che ne limitano l’autonomia.
Le pulsioni psicologiche che si agitano dentro un individuo vengono sempre tradotte in termini oggettivi e all’eroe non resta che fare la parte dell’asino che gli capita di fare quello che fa solo perché l’immobilità eterna non è dicibile e non è attuabile (un pò come per Beckett che aspetta Godot perché così capita). Ma Eschilo sa che è questa la potenza tragica dell’eroe ed è per questo che il verdetto degli ateniesi incaricati da Atena per giudicare la colpa di Oreste finisce in parità. E se le Erinni vengono comunque trasformate in Eumenidi è solo perché così può svelarsi la loro natura doppia, come fossero loro i due pagliai identici entro i quali rimanere immobili. Ma gli eroi si muovono e magari le Eumenidi sono destinate a ridiventare Erinni perché la persuasione è la via dell’essere e l’immobilismo o non esiste o esiste e tutto è o non è immobile. La via dell’essere è La via della persuasione. “Meglio che perdersi in fondo all’immobile” (Marlene Kunz).




Renè Aubriè